Madri indirette

Recensione Les enfants des autres. Quinto lungometraggio di Rebecca Zlotowski, il primo ad approdare in concorso a Venezia, Les enfants des autres è un dramma di chiara impronta femminista.

Classe 1980, Rebecca Zlotowski è una regista francese con origini in parte polacche e in parte marocchine e un discreto curriculum alle sue spalle: ha diretto cinque cortometraggi e, tra gli altri, attori non da poco come Louis Garrell, Natalie Portman o Lily-Rose Depp. Il suo ultimo lavoro, I figli degli altri, è un titolo tutto sommato secondario della competizione ufficiale dell’attuale Mostra del Cinema di Venezia 2022, che riflette nondimeno su importanti questioni prese direttamente dai dibattiti pubblici e social che hanno caratterizzato gli ultimi anni.

I figli degli altri affronta una situazione spinosa che sempre più donne – ma anche uomini – si trovano a vivere nel corso delle loro vite sentimentali: da quando il divorzio non è più un tabù e da diritto si è trasformato in “abitudine”, superata la trentina è frequente trovare un nuovo partner che abbia figli provenienti da storie pregresse. È proprio Rebecca Zlotowski a sintetizzare la riflessione che l’ha portata a concepire questo suo nuovo film, e la trama stessa della pellicola, nelle note di regia che accompagnano il programma di Venezia: «una quarantenne senza figli si innamora di un padre single. Mentre cerca di trovare spazio nella famiglia dell’uomo, incomincia a sentire il desiderio di avere una famiglia sua. Ma, da personaggio tradizionalmente in secondo piano, se non semplice comparsa, è costretta a scomparire con la fine della storia d’amore. Perché una donna simile, che vive un’esperienza apparentemente comune – e che io stessa ho vissuto – non è mai stata protagonista di un film? Con Les enfants des autres ho girato il film che avrei voluto vedere al cinema, pensando che anche altri potrebbero avere lo stesso desiderio».

A differenza di altri film presenti nel Concorso ufficiale di questa settantanovesima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, I figli degli altri non segna un particolare nuovo traguardo nella cinematografia globale – non ha nulla da spartire con i piani sequenza tecnicamente quasi impossibili di Athena di Gavras Jr. o con la rappresentazione della transessualità nel cinema italiano scomodata da Crialese col suo nuovo L’immensità. Nondimeno, proprio perché si riallaccia esplicitamente a un certo dibattito critico tuttora in corso sul tema del female gaze e della sottorappresentazione, nel cinema contemporaneo, della prospettiva femminile su certe questioni cruciali del rapporto di coppia, I figli degli altri risulta comunque un importante documento filmico, che inquadra anche un preciso momento della cultura francese attuale.

Del resto, che il personale è politico e viceversa è un verdetto che si ripete sin dal Sessantotto e Rebecca Zlotowski non ha fatto mistero di aver attinto, per questo film, dal rapporto vissuto con il regista Jacques Audiard e la sua famiglia allargata; e forse proprio questa componente di palpabile autofiction che scorre sottotraccia al film rappresenta un suo parziale limite. Il problema strutturale de I figli degli altri non sta nel trasporto o nell’empatia con cui viene raccontata la storia di amore/disamore tra i due protagonisti, ma nello scarso equilibrio narrativo: in particolare, pesano troppo sul montaggio finale del film le sequenze gioiose che raccontano l’idillio della coppia e il legame che si viene a creare, al di là di qualche attrito, tra protagonista e la figlia del suo nuovo compagno. Simmetricamente, è giocoforza che il momento della rottura, relegato agli ultimi venti minuti di film, risulti meno approfondito e quasi improvviso, apodittico, certo anticlimatico: arrivato al suo secondo turning point, I figli degli altri perde la sua fluidità esistenziale e improvvisamente sembra premurarsi soltanto di dimostrare la tesi alla base del film.

Che I figli degli altri parteggi per la protagonista e non per il protagonista è prevedibile e in fondo naturale, dopotutto non sono fuori luogo battute in apparenza retoriche che la protagonista si scambia con la ex-moglie dell’uomo – «noi donne dovremo smettere di chiederci scusa reciprocamente, al posto degli uomini». Il fatto è che è una costruzione così lineare e in fondo così prevedibile fa perdere il gusto della narrazione, dell’affabulamento. Un altro elemento di autofiction che forse andava approfondito maggiormente per dare il giusto equilibrio alle dinamiche narrative del lungometraggio sono i numerosi riferimenti alla cultura e alla spiritualità ebraica che pure puntellano i rapporti e i discorsi tra la protagonista e la sua famiglia di origine.
Ciò non vuol dire che il film della Zlotowski manchi il suo obiettivo di fondo o resti fuori fuoco rispetto alle tematiche che vuole approfondire: al di là di una certa schematicità e di un certo spirito di parte, l’adozione di una prospettiva interamente femminile sulle vicende narrate offre sicuramente uno sguardo fresco su dilemmi morali quanto mai delicati. La protagonista Virginie Efira, un’attrice franco-belga di lungo corso ormai consacrata dopo la collaborazione con Paul Verhoeven che la ha eletta a sua musa tardiva, è assolutamente convincente e dedita alla sua parte; non è da meno il franco-marocchino Roschdy Zem nel ruolo di Alì. Si segnala peraltro la presenza di Chiara Mastroianni nella parte dell’ex-moglie di questi, destinata a giocare un ruolo cruciale nella brusca conclusione della vicenda.

Titolo: Les enfants des autres
Regista: Rebecca Zlotowski
Sceneggiatura: Rebecca Zlotowski
Attori principali: Virginie Efira, Roschdy Zem, Chiara Mastroianni, Callie Ferreira-Goncalves, Yamée Couture
Scenografia: Katia Wyszkop
Fotografia: George Lechaptois
Montaggio: Géraldine Mangenot
Costumi: Bénédicte Mouret
Produzione: Les Films Velvet, France 3 Cinéma
Distribuzione: Europictures
Durata: 104’
Genere: drammatico
Uscita: 22 settembre 2022