Umano, troppo umano

Vincitore del Leone d’oro all’ultima Mostra di Venezia, il film tesse un elogio degli ultimi e al contempo un omaggio al cinema di genere degli anni cinquanta, ma senza mai convincere davvero.

A Baltimora, nei primi anni sessanta, Elisa Esposito, resa muta da una malattia contratta durante l’infanzia, lavora come donna delle pulizie in un laboratorio governativo dove si conducono esperimenti segreti. Un giorno viene portato nella struttura un misterioso essere rinchiuso in una vasca; di nascosto, Elisa visita questa creatura anfibia e fra i due si sviluppa un legame tanto improbabile date le circostanze, quanto stretto e profondo. Per sottrarla agli esperimenti genetici cui vorrebbe sottoporlo il direttore del centro, che ne provocherebbero la morte, Elisa escogita un piano per liberarla. I militari scoprono però la responsabilità di Elisa nel rapimento dell’Uomo anfibio e cercano in ogni modo di ricatturare ciò che per loro è soltanto un’arma da guerra.

Al centro dell’opera è un’ode agli emarginati d’ogni sorta, siano essi sofferenti di un impedimento fisico come la protagonista, omosessuali, di colore (si rammenti che il film è ambientato all’inizio del decennio che avrebbe visti i movimenti giovanili e quelli per i diritti civili) o creature che poco o nulla possiedono di umano, come l’Uomo anfibio di cui Elisa s’innamora. Insieme, vuol esser un omaggio alla fantascienza e più in generale al cinema popolare di quel periodo: la citazione più evidente è dal Mostro della laguna nera (Creature from the black lagoon, 1954, di Jack Arnold, cui chiaramente rimanda il trucco dell’Uomo anfibio); ma anche la scelta di far abitare la protagonista in uno stabile dove sorge una sala cinematografica non appare certo casuale. A differenza di come aveva saputo far in passato (ad esempio nel Labirinto del fauno [El laberinto del fauno, 2006]), Del Toro non riesce qui a fondere l’aspetto morale della vicenda con quello più schiettamente fantastico. Gli assi portanti del film,  l’omaggio al cinema popolare d’antan, da un lato, e la solidarietà fra gli emarginati da un lato, che sfocia nell’amore per un essere solo in parte umano, dall’altro; non s’incontrano né si armonizzano. Anzi, il primo finisce con l’oscurare il secondo ed acquisire maggior importanza, che ne sia o meno consapevole il regista. Il côfantastico si rivela dunque un mero pretesto per raccontare una storia d’amore impossibile nella realtà (come lo sarebbe l’esistenza della creatura) e resa invece possibile dal cinema, in particolare di genere, specie se oggi può giovarsi della Cgi, di cui nelle sequenze subacquee si fa largo uso. Anche la presenza in colonna sonora di canzoni d’epoca, come la scelta di una protagonista priva d’avvenenza chiamata ad interpretare un personaggio menomato nell’aspetto e costretto a svolgere una mansione umile, sembrano confermare l’intenzione del regista di creare attraverso il cinema una storia fiabesca e romantica dove i torti vengono risarciti e gli ultimi, alleandosi fra di loro, possono vincere i forti e i prepotenti (rappresentati qui da militari come sempre ottusi e arroganti) e coronare infine un amore al di fuori d’ogni legge naturale. Confrontando il film col meno ricco produttivamente (e certo molto meno acclamato dalla critica e premiato dal consenso del pubblico) Splice (2009, di Vincenzo Natali, dal quale riprende l’omicidio del gatto a scopo, diciamo così, gastronomico, da parte della creatura), si nota come quest’ultimo di Del Toro sia decisamente meno inventivo e più accomodante, specie nel finale, nonché incapace di sollevare interroganti disturbanti come la liceità della sperimentazione genetica per creare ibridi artificiali e persino il risultato dell’unione fra l’uomo e l’altro da sé, il non umano. Anche sul piano degli effetti speciali, il film non presenta alcuna innovazione significativa, né sa creare un figura, quella dell’Uomo anfibio, capace d’impressione lo spettatore lo spettatore e di rimanere nella storia del cinema fantastico, come aveva saputo fare il suo antesignano abitante della Laguna nera e l’ibrido femminile Dren di Splice, nonché lo stesso personaggio del Fauno così efficacemente visualizzato dallo stesso Del Toro. Quella proposta dal regista messicano è dunque una favola sentimentale consolatoria, con uno sfondo fantastico di maniera, nella cui reale importanza nel contesto della vicenda narrata non sembra credere davvero nemmeno il regista.

Titolo originale: The shape of water
Regia: Guillermo del Toro
Soggetto: Guillermo del Toro
Sceneggiatura: Guillermo del Toro, Vanessa Taylor
Fotografia: Dan Laustsen
Montaggio: Sidney Wolinsky
Musica: Alexandre Desplat
Scenografia: Paul D. Austerberry
Costumi: Luis Sequeira
Effetti speciali: Melissa K. Nicoll
Interpreti: Sally Hawkins, Michael Shannon, Richard Jenkins, Octavia Spencer, Michael Stuhlbarg, Doug Jones, David Hewlett, Nick Searcy, Stewart Arnott, Nigel Bennett, Lauren Lee Smith
Prodotto da J. Miles Dale, Guillermo del Toro
Genere: fantastico
Durata: 123′
Origine: Stati Uniti/Canada
Anno: 2017