Doppia recensione per Joker di Todd Philipps.

Batman addio
di Simona M. Frigerio

Dopo che Hollywood ha confezionato per decenni trilogie patinate sull’eroe salvatore dello status quo di Gotham City (leggasi: a stelle e strisce), finalmente Todd Phillips trasforma un fumetto becero di stereotipi manichei in una corrosiva denuncia del falso sogno americano.

Nello stesso giorno in cui quattro senzatetto newyorkesi sono uccisi, mentre i telegiornali si accorgono che la Grande Mela non è solamente Wall Street ma la fredda anima di un Paese che cancella intere fasce di popolazione, tagliando sulla sanità (il caso Bezos è solamente l’ultimo in uno Stato che non pensa che i servizi alla collettività siano un diritto proprio perché, aldilà del voto, non pone tra le premesse della democrazia uno stato sociale), ecco campeggiare sulle locandine Joker e una riconoscibilissima New York al posto della farlocca Gotham City.
Sotto la cover del fumetto, che pare quasi disegnata per tranquillizzare i benpensanti con la favola che si sta raccontando un sogno (o un incubo), ma non la realtà (perché l’Onu non ha problemi a ricevere una ragazzina che ci invita a non usare la plastica e a convertire le auto in elettriche, ma ne ha di più a riconoscere, ad esempio, il diritto alla migrazione per “semplici” motivi economici: sia mai che così facendo nessuno lavori più nelle maquilladoras, quando tutti sanno che sono i beni a dover muoversi liberamente e non le persone). Ebbene, in questo clima di riconciliazione universale adombrato solo dai dazi statunitensi che colpiscono qualche bene agroalimentare, come il parmigiano, quasi che per il resto tutto marciasse ottimamente nel migliore del mondi possibili, ecco che Todd Phillips assesta un gancio alle nostre false certezze, a questa distopia a stelle e strisce che continuiamo a credere l’unico sistema economico e politico in grado di renderci tutti ricchi e felici.
La denuncia è talmente potente che sento, al termine della proiezione, una signora aretina dire a un’amica: «Questo film è pericoloso. Non dovrebbero vederlo i giovani». E ha ragione. Ma non perché potrebbero voler sparare a tre rampanti capitalisti in metropolitana – come lei avrà dubitato – bensì perché potrebbero ricominciare a gridare, per le strade, che un altro mondo è possibile. Un mondo senza armi, dove la sanità e la cura, l’assistenza e i servizi sociali, così come l’educazione e la cultura, siano diritti inalienabili e, come tali, garantiti – dalle leggi e nei fatti. Dove i ricchi non ti assestano un pugno sul naso se li disturbi. Dove l’acqua potabile scende ovunque dal rubinetto – da Nairobi a Sanur fino a Il Cairo. E le bottiglie di plastica non sono più l’unico mezzo per non morire di dissenteria, di colera o di sete. Un mondo dove non sia più facile procurarsi un’arma piuttosto che una confezione di medicinali. Dove si possa chiedere protezione da una società ormai visceralmente violenta, nella quale il sopruso è perpetrato dal ragazzino annoiato come dal manager in giacca e cravatta che irride i suoi impiegati dalla copertina di Forbes.
La distopia di Phillips è chiaramente leggibile come il ritratto della città globale che ci circonda e non è un caso, forse, che De Niro sieda praticamente nel salotto di Dave Letterman – nel quale la ferocia del sistema è spacciata per bonomia politically correct, tra guerre di audience e battute sottilmente maschiliste.
La mano registica si sente. E si vede. La lenta inesorabile discesa nella follia trova negli scarti di ritmo, nei contrappunti musicali e nelle inquadrature appiattite – di un universo bidimensionale (dicotomico, bianco o nero) – in grado di scorticare nella loro perfezione geometrica un mondo sporco e brutale, un corollario iconografico da maestro della macchina da presa. Anche la scelta dei brani musicali, tarantiniana, ha il suo peso nel destabilizzare il nostro immaginario. Così come la selezione degli interpreti (azzeccatissima nella sua ambiguità Frances Conroy, già apprezzata nel serial cult, Six Feet Under).
E poi c’è lui: Joaquin Phoenix, pelle e ossa, invecchiato, scavato, quasi gobbo, che troneggia ma non gigioneggia (diametralmente opposto all’innocuo Joker nicholsiano, sbavato e sfatto come quello di Ledger, che però si inseriva, sebbene fastidiosamente, in un prodotto mainstream). Phoenix avrebbe potuto essere il Walken de Il cacciatore, il Pacino di Un pomeriggio di un giorno da cani. Ma quelli erano gli anni della perdita dell’innocenza, del Vietnam. Oggi, i film come La gabbia dorata, di denuncia, che raccontano un frammento di vita autentica, non vanno da nessuna parte. Oggi ci vuole una maschera sotto la quale nascondere la crudezza del docu-film, sublimandolo nel fantasy. Era accaduto con V per Vendetta. Ma qui si sale di livello. Perché qui si arriva alla consapevolezza estrema che le nostre esistenze non contano più nulla. Anzi, forse, a questo nostro esistere, non crediamo nemmeno più noi.

Joker, alle origini del male
di Emilio Nigro

Ridere del male. Allargare il ghigno di reazione. Isterica. Una metafora la patologia di Arthur Fleck, Joker:

sbellicarsi incontrollabilmente quando non c’è niente per cui farlo, anzi. Una malattia mentale. Non è l’unica. E’ solo, sociopatico, ingenuo, onesto. L’onestà è un danno se in un mare di squali.

Gli mettono in mano una pistola. Dopo un’aggressione, l’ennesima, al lavoro. E’ un clown. Lo fa bene. I colleghi sono invidiosi. Meglio torglierselo di mezzo. La madre, sua unica donna, glielo ripeteva da bambino “sei nato per far ridere, Happy”. Gli mettono in mano una pistola e…

Le origini del male, habituè d’un filone holliwoodiano a cavalcare i successi dei superhero-movie. Ma niente a che vedere con il DC comic style. Sì, la fotografia è pastellata dall’iconografia balloon; i chiaroscuri metropolitani sfumati dal simbolo, estetizzati inconsapevolmente dall’architettura industriale, urbana; l’azione esplicitata dal contesto, prevenuta dal segno grafico. Ma qui è l’uomo, l’uomo senza maschera. E la realizzazione negata. Perché povero. Perché non conta.

Aderisce ad una attualità politica e globale Todd Phillips, l’aporofobia, prendersela con i poveri. Nell’epoca dell’arroccarsi a corte quando fuori piove. Difendersi allora il poco rimasto, ciò che resta della carne sugli ossi, a denti stretti, rigenerandosi tra consanguinei…

Si sovrappone Phillips. E prende posizione. Non troppo velatamente.

Si empatizza con Joker. Nonostante la follia omicida. E’ un reattivo. Una vittima. Un agnello sacrificale. Si servono di lui. Dalla madre alla folla esaltandolo a slogan, per stare dietro le maschere e celare la propria viltà. Arthur è un debole. Di mente. D’animo blando. Ama i bambini, ma è strano, glieli levano via. E muta. Lui che cerca solo abbracci, gli abbracci di un padre mancato, muta. Diventa il villain.

Sta dalla parte sbagliata, suo “fratello” Bruce Wayne, ancora un bambino, deciderà di diventare l’eroe pipistrello, l’eroe dei giusti. Perché i giusti sono ricchi, borghesi. Hanno il potere. E dispongono dei poveri, delle donne, degli uomini, come vezzi dei loro capricci.

Joker trucca il viso d’un ghigno. Finisce male. Chiuso. Ma fuori la sua opera continua. Edipo e Prometeo. Sfida il cielo.

Phoenix lo interpreta in ebbrezza divinatoria, mutilando la persona in grazia del personaggio. Nulla è lasciato all’arbitrio. I primi piani non concedono dubbi. Anche le rughe tratteggiano il calco. Il corpo si fa memoria di dolore. È sovrapposto. Posseduto. Lo spectrum di chi guarda.

Le sequenze intrecciate a mischiare allucinatorio e realtà, farsi beffa del vero, significare crudezza nelle vite fatte show. Showbiz.

E white room dei Cream, sul finale, ad alzare l’idolo sulla folla… la folla di noi, dall’altra parte. Separati. A puntare il dito.

Joker, l’antieroe. Paladino a sua insaputa. Il rovesciamento, drammaturgico, del canone. Morbo del potere, che genera nel proprio tessuto cellule cancerogene – il candidato a sindaco Wayne, amante della serva Penny Fleck, madre di Arthur, sedotta e abbandonata brutalmente, con un berretto a sonagli in testa -. Il male del potere. Autogenerato. A reclamare sangue.

Ma non è che una carta nel mazzo, il Joker…né un re, né regina, né fante. Può però sostituirsi. A tutte.

Titolo originale: Joker
Nazionalità: Usa
Anno: 2019
Genere: Drammatico
Durata: 123’
Regia
: Todd Phillips
Interpreti: Joaquin Phoenix, Robert De Niro, Zazie Beetz, Frances Conroy, Brett Cullen, Glenn Fleshler, Bill Camp e Shea Whigham
Sceneggiatura: Todd Phillips e Scott Silver
Montaggio: Jeff Groth
Fotografia: Lawrence Sher
Scenografia: Mark Friedberg
Casa di Produzione
: Joint Effort
Distribuzione in Italia: Warner Bros.
Premi vinti: Leone d’Oro alla 76a Mostra Internazionale d’Arte cinematografica di Venezia

Nelle sale italiane dal 4 ottobre 2019