Ritratti d’Autore

Attivo a partire dai primi anni sessanta, Roberto Girometti (Roma, 1939) è stato uno dei direttori della fotografia più importanti e prolifici della sua generazione, attivo saltuariamente anche come giornalista per La Settimana Incom, regista e sceneggiatore. Fra i molti registi dell’epoca con cui ha collaborato, Marino Girolami, Roberto Loyola, Franco Rossetti, Luigi Cozzi, Sergio Martino e Bruno Mattei. Fra i molti titoli della sua filmografia spiccano anche due documentari-intervista, Intervista a Salvador Allende: La forza e la ragione di Emidio Greco e Roberto Rossellini e In viaggio con Che Guevara di Gianni Minà.

Quali sono le sue origini? Come si è avvicinato al mondo del cinema e quale è stata la sua formazione professionale?
Roberto Girometti: «Io ho cominciato lavorando alla Settimana Incom. Nel 1962 ebbi la fortuna di conoscere Sandro Pallavicini, il quale era all’epoca proprietario e direttore di quel cinegiornale, e alla Settimana Incom ho avuto il piacere di fare i miei primi lavori. Lì ho imparato tutto, perché alla Settimana Incom veramente uno entrava portando un’idea ed usciva con un film completo. C’era il reparto delle macchine da presa, il reparto fonici, il reparto sviluppo e stampa, il reparto degli effetti speciali, il reparto trucco e titoli e addirittura i teatri di posa. Lì mi sono formato come operatore e direttore della fotografia, ma Pallavicini, che sapeva che io da ragazzo avevo frequentato scuole di meccanica e che aveva letto nella mia domanda che volevo a far entrare del reparto operatori, da grande persona quale era all’inizio mi fece trascorrere un mese in ciascun dei reparti. In questo modo non solo ho imparato come riprendere, come fotografare un film, ma mi sono fatto delle competenze basilari su tutti i passaggi della realizzazione di un film; poi, alla fine di questo percorso, restai nella fotografia. Questo è stato il mio inizio e devo dire che è stata una grandissima esperienza. Ricordo con grande ammirazione anche i due capi operatori con cui dovevo rapportarmi. Aldo Pennelli e Marziano Lomiry, sono stati loro a insegnarmi tutto della professione che poi sarebbe diventata la mia. Aldo Pennelli era un artista estroso, Marziani Lomiry un tecnico preciso e impeccabile: due grandi persone. Questo è stato il mio inizio»

Una volta terminata l’esperienza alla Settimana Incom quali sono stati i suoi primi lavori come direttore della fotografia?
RG: «Il mio primo film, che sto cercando di ritrovare e forse sono riuscito a recuperare, fu Policeman di Sergio Rossi, uscito nel 1969. La produzione era la San Diego Cinematografica di Renzo Rossellini. Feci anche Don Ciccio e Don Franco nell’anno della contestazione ma lì feci una sola settimana di lavoro, quella finale: il direttore della fotografia in carica doveva andare su un altro set e Marino Girolami mi chiamò a concludere il lavoro»

Nel 1971 ha girato Salvator Allende: La forza e la ragione, documentario-intervista al grande leader cileno condotta da Roberto Rossellini ed Emidio Greco. Innanzitutto come è stato coinvolto nel progetto? Cosa ricorda di Rossellini e dell’idea enciclopedica di cinema che andava sviluppando negli ultimi anni della sua carriera?
RG: «Essere stato scelto, in un gruppo di giovanotti, da Rossellini padre in persona mi provocò quasi uno svenimento: io avevo appena trent’anni, Rossellini dagli anni quaranta in poi aveva fatto una sfilza di capolavori. Ricordo alcuni scambi molto divertenti con lui, tutti giocati sulla nostra omonimia. Io per grande rispetto lo chiamavo “signor Roberto”, Rossellini per due volte mi disse “Roberto, chiamami Roberto” ma io continuavo a dire “sì, signor Roberto”. Divenne un gioco fra noi: “Roberto?”, “Sì, signor Roberto?”, “Roberto, andiamo a lavorare”, con questa omonimia ci divertivamo da matti. Un altro fatto molto divertente risale a prima dell’incontro vero e proprio con Salvador Allende. Eravamo in una piazza a Santiago del Cile dovevamo riprendere uno dei suoi primi discorsi da presidente. Io che parlo abbastanza bene lo spagnolo avendo fatto, negli anni sessanta, come assistente o operatore di macchina diversi western in coproduzione italo-spagnola, a un certo punto intuii che Allende stava per finire il suo discorso e mi infilai in mezzo alla folla per andare sotto al palco e riprendere da vicino il presidente che saluta tutti e scende. Proprio mentre stavo facendo un primissimo piano di Allende che scendeva dalla scaletta che portava al palco mi arriva all’improvviso per sbaglio un pugno nello stomaco, e per il dolore mi esce una parolaccia, “hijo de puta!”. Una settimana dopo finalmente Rossellini riesce ad avere i contatti con Allende e iniziamo l’intervista a casa del presidente. Rossellini ci presenta tutti quanti, Salvator Allende passa un secondo davanti a tutti noi poi torna indietro verso di me e mi fa “Come si chiama este?”, “Roberto, señor”. “Roberto, ¿quién es el hijo de puta?’. A me ha preso un accidente, con un capo di stato che chiede chi è il figlio di puta a momenti svengo, ma Allende dopo un momento scoppia a ridere e mi fa “Come sta lo stomaco, Roberto?”, “Tutto bene, presidente”. Questo fu il mio inizio con Rossellini e Allende, poi per parlare di loro ci vorrebbe un anno. Su quel film facevo da operatore, con un assistente locale. In questo genere di lavori documentaristici si ricoprono un po’ tutti i ruoli»

La forza e la ragione è uno dei più importanti documenti visivi su Allende, che sarebbe stato ucciso due anni dopo durante un colpo di stato di Pinochet. Com’era il Cile negli anni di Allende? Allende come espose il suo progetto di governo durante l’intervista?
RG: «Il Cile dell’epoca rappresentava la magia della politica. Ricordo una delle prime risposte che Allende dette a Rossellini, mi impressionò perché credo che sia ancora una delle cose più belle che io abbia mai sentito da un politico. “Io adesso quello che sto facendo è mandare nei paesi di tutto il Cile i maestri, per insegnare a leggere e scrivere ai giovani e insegnare a leggere e a scrivere alle persone anziane”. Sentendo parlare di bambini mi emozionai molto. Io vengo dalla periferia romana, la mia famiglia era una famiglia di lavoratori, non avevamo gente acculturata nella mia famiglia, i miei nonni erano degli antifascisti ma erano morti prima della mia nascita: sentire parlare Allende di queste iniziative di alfabetizzazione mi impressionò molto. Fu uno dei primi personaggi politici che parlò di insegnare ai giovanissimi la cultura»

Nel 1976 ha collaborato per la prima volta con Luigi Cozzi, per la commedia erotica La portiera nuda con Irene Miracle ed Erica Blanc. Cosa ricorda di quel film?
RG: «Cozzi l’ho conosciuto attraverso due amici che erano gli organizzatori de La portiera nuda, Lillo Capuano e Roberto Mannoni, e così abbiamo collaborato una prima volta sul set di questo film molto simpatico. Ricordo bene Irene Miracle, bella e brava attrice americana. Girammo qui a Roma senza intoppi, fu un set molto divertente. Poi con Luigi abbiamo continuato a incontrarci altre situazioni; ricordo in particolare quando io come direttore della fotografia e lui come regista abbiamo fatto insieme la seconda unità de La sindrome di Stendhal di Dario Argento. In quel film la fotografia principale era curata da un colosso come Peppino Rotunno, che ci ha lasciati pochi giorni fa»

Per Mafia, una legge che non perdona del 1980 lei cura sia la fotografia che la sceneggiatura che la regia. Come è nato il progetto e come si è trovato anche a dirigerlo?
RG: «Il progetto nacque da un fatto di cronaca letto sui giornali, il rapimento di un bambino figlio di un camorrista; poi lo intitolammo Mafia e lo girammo tutto in Campania sulla Costiera Amalfitana, ma all’origine c’era un fatto di camorra. Siccome io so di essere bravo a raccontare ma non tanto bravo a scrivere le cose, lo sceneggiai assieme agli amici Pierpaolo Lubrani e Pelio Quaglia e poi lo presentai a un vecchio amico produttore, Nino Vendetti della Cabaret Film. Siccome eravamo molto amici con Nino, che purtroppo non c’è più da tanti anni, gli dissi “leggiti questa sceneggiatura e poi troviamo un regista che la faccia”. Nino lesse la sceneggiatura e gli piacque molto, si mise alla ricerca di un regista e ma alla fine mi disse “ho sentito alcuni amici registi che vorrebbero cambiarla completamente ma la sceneggiatura mi piace così come l’avete scritta, tu, Roberto, vuoi fare il film?”, e io gli dissi “sì, mi farebbe piacere”, e lui “fattelo!”; io provai a dirgli “come faccio? io non sono un produttore, non ho mica i soldi…” ma Nino mi disse “te lo produco io, basta che poi fai anche il regista”. Così è nato il mio primo film da regista, poi ci ho preso gusto e ne ho fatti altri due, ma mi diverte di più fare il direttore della fotografia che il regista»

Un’altra intervista storica che lei ha girato è stata quella di Gianni Minà a Fidel Castro, nel 1987. Innanzitutto quali furono le prime impressioni di Cuba al vostro arrivo?
RG: «Anche quella fra Fidel Castro e Gianni Minà fu un’altra intervista leggendaria. Ricordo che il primo incontro lo facemmo all’Istituto di Ingegneria Biotecnologica di Cuba, il primo istituto di questo tipo ad essere stato fondato al mondo. L’aveva inventato Castro perché sin da quando aveva preso il potere aveva sostenuto che, considerando la povertà di Cuba, il popolo doveva stare in buona salute, quindi si dovevano anticipare tutte le nuove malattie prima che avvenissero. La lungimiranza di questa intuizione si è dimostrata adesso, visto che a Cuba il Covid-19 ha attecchito pochissimo e adesso hanno anche un loro vaccino, si preparano sempre in anticipo.

Come si svolse poi l’intervista vera e propria col «Líder Máximo»?
RG: «Anche con Castro fu divertente perché il Comandante disse due cose molto simpatiche. La prima fu quando stavamo girando all’Istituto e io gli chiesi “senta presidente, io dovrò chiamarla varie volte per dirle come muoversi, come preferisce che la chiamo? Señor Fidel, señor Castro, señor Comandante…”, e quest’uomo alto 1,80 mi fa “cómo te llamas tú?”, “Roberto, señor”, “Roberto, yo soy el Comandante”, e io allora dissi “bene, signor Comandante”, ma Castro replicò: “senza signore, comandante e basta”. Questo fu il mio primo incontro con lui! Un’altra cosa simpaticissima ci fu alcuni giorni dopo, quando stavamo sempre girando nel suo ufficio privato a Piazza della Rivoluzione. Gianni gli domandava di tutto e di più, ma a un certo punto durante una pausa nell’intervista Fidel Castro mi si avvicinò e mi chiese “Roberto, come si fa il cinema?”. E io, che sono un altro chiacchierone mi sono messo a spiegargli per un buon quarto d’ora la tecnica cinematografica. Mentre succedeva tutto questo c’era altro personaggio storico dei miei incontri, il premio Nobel per la Letteratura Gabriel García Márquez. Mentre parlavo vedevo che lui rideva, e io temevo fosse per il mio cattivo spagnolo. Finita la chiacchierata con il Comandante mi avvicinai a lui e gli dissi “scusa Gabo, perché ridevi, è vero che non parlo bene lo spagnolo ma…”, e lui fece: “no Roberto, tu parli benissimo, la cosa che mi ha fatto ridere e sorridere è che è la prima volta vedo Comandante stare in silenzio per più di cinque minuti, lo hai ubriacato di cinema!”. Io scoppiai a ridere e dissi “è il lavoro mio”, e Márquez “sei stato un grande”»

Nei primi anni novanta ha fotografato le due stagioni della serie tv cult Detective Extralarge di Enzo Castellari e Alessandro Capone, interpretata da Bud Spencer. Era la sua prima esperienza con la serialità televisiva? Come si trovò a collaborare con Bud Spencer?
RG: «Giuseppe Pedersoli aveva in mente di fare questa cosa con il papà, Bud Spencer, il grande Carlo Pedersoli, e io vi fui coinvolto con grande piacere. Lui, io, Mauro Morigi ed Enzo Castellari eravamo un grande gruppo di amici. Io avevo conosciuto Bud Spencer e Terrence Hill nel 1966-67 quando facevo l’operatore di macchina con Marcello Gatti nel film I quattro dell’Ave Maria. Tutta la parte girata in Italia l’avevamo girata Gatti e io, poi Gatti andò a fare un altro progetto e io dovevo andare in Africa a fare lunghissimo film, quindi lasciammo entrambi il film. Per Detective Extralarge invece andammo in Florida, un paese che amo molto e dove avevo già girato, e fu una bellissima esperienza. La cosa divertente fu che Bud Spencer era un grande sportivo di nuoto, io ero un mediocre sportivo di tanti sport tra i quali il calcio; appena arrivati in America cominciammo a lavorare con una troupe mista, in parte italiana, in parte nordamericana, in parte di latinos, e mi inventai, assieme a un collaboratore latinoamericano, un torneo di calciotto fra le varie squadre. Come lo viene a sapere Bud Spencer ci disse “dai, sono vostro sponsor”. Lui sponsorizzò la nostra squadra e ho foto belle con lui, con noi “calciatori” che indossiamo la maglia scritta Extralarge e Bud Spencer. Su quel set conobbi anche Philip Michael Thomas, che veniva da film e serie con Don Johnson come Miami Viace che io avevo adorato, e Dionne Warwick, bravissima attrice e cantante afroamericana. Grande Bud, un saluto lassù!»

Nel 2004 era di nuovo a fianco di Gianni Minà per un altro documentario incentrato sulla storia cubana, In viaggio con Che Guevara. Come è nato questo documentario e come lo avete girato?
RG: «Walter Salles stava girando il film I diari della motocicletta, ispirato ai diari giovanili di Che Guevara e Alberto Granada durante un attraversamento in moto dell’America Latina, nei primi anni cinquanta, e Gianni e io facemmo una sorta di film sul film. Anche questa fu un’esperienza bellissima, fu un piacere conoscere Walter e collaborare con una troupe formata da persone di tutto il mondo. Anche noi come il Che e Granada siamo andati in giro per tutto il Sud America, dall’Argentina al Cile al Perù alla Bolivia fino al Venezuela, seguendo tutte le riprese del film. Credo che abbiamo fatto un bel lavoro, perché durante il montaggio mandammo il nostro documentario alla produzione del film di Salles, che era stato sostenuto da finanziatori di diverse parti del mondo fra cui il grande Robert Redford; e proprio Redford dopo aver visto In viaggio con Che Guevara fece una telefonata alla nostra produzione per parlare con Minà e dirgli “senta, ho visto il vostro documentario, sono rimasto affascinato ma vi pregherei cortesemente di farlo uscire due mesi dopo che esce il nostro film”. Con Redford ci incontrammo di persona, e Minà gli diede la parola di uscire sulle varie televisioni almeno due mesi dopo I diari della motocicletta di Salles, per non fare concorrenza all’altro film.»

Uno dei suoi titoli più recenti è Once Upon a Time: Tonino Delli Colli cinematographer, documentario incentrato su uno dei più grandi autori della fotografia della storia del nostro cinema. Che debito sente di avere nei confronti di Delli Colli? Come avete realizzato questo documentario?
RG: «Con Tonino Delli Colli io non ho avuto il piacere di condividere un set, ma ci siamo conosciuti negli anni ottanta quando io feci, sempre assieme a Minà, un bellissimo documentario dedicato a Sergio Leone intervistando un po’ tutti i suoi collaboratori, e lui ci raccontò un sacco di ricordi dei set con lui. Quando Tonino ci ha lasciati, nel 2005, io ero presidente dell’AIC, l’Associazione Italiana Autori della Cinematografia. Per omaggiarlo realizzai sul momento un brevissimo documentario su di lui con una serie di fotografie che scorrevano, coinvolgendo tutti noi dell’Associazione. Un paio d’anni fa, parlando con Stefano Delli Colli che nel frattempo aveva pubblicato per Artdigiland un bellissimo libro dedicato al padre, è nata l’idea di fare un documentario più completo, e assieme ad un paio di altri amici, Sergio Salvati, Pino Pinori e Adolfo Bartoli, abbiamo dato una mano per realizzarlo, con la regia di Claver Salizzato. Tonino veramente è stato una colonna cinematografia italiana e mondiale»

Nel 2018 è tornato a collaborare con Cozzi per il film I piccoli maghi di Oz, girato con la scuola elementare Ettore Majorana di Roma. Si trova bene a lavorare con i bambini? Cosa cerca di trasmettere del suo lavoro di direttore della fotografia?
RG: «I piccoli maghi di Oz è stata un’esperienza bellissima, io adoro stare con i bambini. Già più di dieci anni fa avevo tenuto una serie di incontri con le scuole alla Casa del Cinema ed era stato un grande successo. Più o meno nello stesso periodo anche una mia amica c’era amica che faceva la maestra in una scuola elementare e mi chiese di fare un incontro con i suoi bambini. In occasioni come queste rimango sempre affascinato da quello che i bambini riescono a capire e a interpretare di quello che è il lavoro del cinema. L’impostazione delle lezioni è molto semplice. Parto con la foto di Einstein che fa la linguaccia e quella sua frase bellissima “non ho particolari talenti, sono solo appassionatamente curioso”. Quella frase coinvolge subito i bambini e nasce subito un rapporto di simpatia tra me e loro. Poi procedo e gli racconto tutto quello che è il cinema e anche di come fare il direttore della fotografia mi ha permesso di viaggiare in tutto il mondo – a parte l’Australia, non so perché, io sono stato in molti paesi dall’Europa all’America, dall’Asia all’Africa, e ho sfiorato anche il Polo Sud. Insomma, io e i bambini ci divertiamo!»