In occasione dell’inaugurazione della sua mostra fotografica Memoranda: tesori di Cartagine e della Tunisia Imperiale, presso la Società Geografica Italiana a Villa Celimontana (Roma), incontriamo il fotografo Francesco Cabras.

Circondati dalle rovine di Cartagine, magnifiche e drammatiche nel bianco e nero delle visioni di Cabras, quella che inizia come una piacevole intervista sulla sua attività si trasforma presto in una più ampia riflessione ontologica e tecnica su tutta l’arte visiva. Francesco Cabras è infatti anche regista, attore e produttore. Con la sua società, Ganga, ha prodotto e girato videoclip per Max Gazzè, Caparezza, Cammariere, Giorgia, Rosario di Bella e Nada; documentari di creazione (come The Big Question) e documentari d’arte (Il Compromesso, Josef Koudelka). Si occupa altresì di videoarte (da segnalare, l’opera Paleoliche: vincitrice del Festarte 2008 e utilizzata da Greenpeace per la campagna pro energia eolica), e pubblicità. La sua inesauribile passione per il viaggio lo porta in Iraq (dove realizza Un Ponte per Baghdad), in India (dove gira due puntate del programma Sfera della 7), in Birmania (dove intervista la premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi, agli arresti domiciliari) e in tutta l’Asia, tanto da lavorare anche come guida e ideatore di viaggi.

Quando nasce la sua passione per l’immagine?
Francesco Cabras
: Mi è sempre piaciuto scrivere e disegnare, le uniche materie in cui non facessi fatica. A 11 anni ho iniziato a fotografare passando molto tempo in camera oscura mentre i coetanei giocavano a pallone. Fermo restando che di quelle partite a calcio o, meglio, di ciò che esse rappresentano per un ragazzo di quell’età, ancora sconto la mancanza, la camera oscura è di per sé un luogo autenticamente magico in cui il tempo e l’utilizzo della mente acquisiscono un valore positivamente alterato e fertile. Ed è anche un luogo di concentrazione e lavoro utile per affinare degli strumenti di valutazione estetica ma soprattutto di volontà e caparbietà. In quel periodo ho iniziato a divorare ogni fonte di immagine: copertine di dischi, film, documentari, riviste di fotografia e di viaggio, mostre e musei dove venivo portato dai miei. Era una passione che aumentò esponenzialmente dopo aver visto il potere seduttivo che David Hemmings esercitava in Blow Up! Tutte queste passioni coltivate un po’ prematuramente mi sono sempre servite per cercare di evadere un’adolescenza molto problematica che tragicamente continua a protrarsi!

Che metodologia usa nella costruzione dell’immagine?
F.C.:Magari avessi una metodologia sicura. Certamente si sviluppano dei pattern, delle direzioni compositive che di volta in volta si possono tirare fuori dal cilindro come le tre carte, e spesso aiutano. Però indugiare troppo nei porti sicuri alla lunga diventa una trappola, se avviene c’è qualcosa che non va. L’ideale è riuscire a trovare per ogni soggetto un’inquadratura giusta rispetto a ciò che si vuole esprimere ma una formula per questo non ce l’ho. La formula è un insieme di variabili pratiche estemporanee ed esistenziali che incontriamo o ci portiamo dietro e formano la nostra peculiare sensibilità. Ma volendo tornare sulla terra direi che per prima cosa ho bisogno di vedere: guardare l’inquadratura nel mirino e possibilmente avere molto tempo da passare di fronte al soggetto senza pressioni esterne. Una condizione che non si verifica con facilità e probabilmente è molto meglio così, altrimenti non premerei mai il pulsante di scatto. L’assioma da cui parto è che in qualsiasi posto, anche nella situazione più difficile, esiste sempre almeno un’inquadratura buona e giusta, ne sono convinto e molto spesso i limiti diventano un plus valore. Un’altra regola utile è anche essere in grado di ignorare qualsiasi parametro acquisito e scattare più o meno come lo farebbero gli idioti di Lars Von Trier, cioè a ruota libera, in folle nel vero senso della parola.

Si sente autore o interprete delle immagini che registra?
F.C.: Questa è una grande domanda di estetica, la risposta non è facile, e soprattutto non è tanto importante credo. Se prendiamo un unico soggetto e cinque fotografi o pittori con una qualche personalità o spessore, probabilmente avremmo cinque diversi risultati. Se ascolto la canzone Mr. Bojangles cantata da Bob Dylan o dal suo autore, Jerry Jeff Walker, o da Sammy Davis Jr. ho tre emozioni molto diverse tra loro. Sono un maniaco delle cover anche in senso filosofico. Non c’è niente che mi entusiasmi di più di una cover interessante e lontana dall’originale: è come se si aprissero nuovi orizzonti e contemporaneamente tutto tornasse acquisendo un senso, come se avessi accesso a qualcosa di sorprendente e rivelatorio. Dunque andrebbe ricalibrata la percezione che abbiamo dei termini ‘interprete’ e ‘autore’. Tornando a me, come fotografo direi istintivamente che mi sento più autore perché il mio punto di vista, ciò che mi muove, è più potente del soggetto stesso, ma nello stesso tempo il mio è un vero e proprio omaggio, una celebrazione del soggetto di cui mi sono innamorato in quel momento, e dunque si tratta in fin dei conti di un’interpretazione.

Chi sono i suoi “maestri”?
F.C.: Sono stato fortunato da quel punto di vista: i miei genitori hanno sempre avuto un ottimo gusto, mi hanno insegnato a vedere la bellezza anche nelle forme meno convenzionali. Entrambi appassionati di storia dell’arte: mia madre pittrice per hobby e mio padre fotoamatore. Mio fratello non mi ha fatto dormire per anni mettendo su di notte, a volume alto, una musica che odiavo – ma solo pochi anni dopo mi avrebbe cambiato la vita. Ho collaborato a lungo con il regista e musicista Varo Venturi: con lui ho iniziato a fare il filmaker e l’attore. Alberto Molinari, oltre a essere un fratello elettivo, è il mio socio – con lui ho co-diretto la maggioranza dei lavori – un maestro costante e indispensabile: venendo io dalla fotografia ed essendo sostanzialmente molto pigro, se non fosse stato per la sua visione non credo avrei mosso di un centimetro la camera. Questi potrei dire che siano stati i miei maestri, tanto importanti quanto ostici a essere uccisi – come tutti i veri maestri. Al di là ce ne sono infiniti, facendo il gioco dei nomi: Fellini, Jodorowsky, Welles, Scola, Jarmush, Ciprì&Maresco, Monicelli, Kurosawa, Eisenstein, e Chaplin per il cinema. Sebastiao Salgado, Steve McCurry, David Doubilet, Ansel Adams, Romano Cagnoni, Koudelka, Fontana, Eugene W. Smith, Weston, Cartier Bresson per la fotografia. Leonard Cohen, Pete Townshend, Sex Pistols, Lucio Dalla, Portishead e Nina Simone per la musica, che è fondamentale anche per la regia: spesso parto da una suggestione musicale anche se poi non ci sarà nemmeno la colonna sonora.

Quali le somiglianze e quali le differenze tra il lavoro di regista e e quello di fotografo?
F.C.: Posso parlare solo per me, chiaramente. La regia e la fotografia hanno aspetti accumulabili: un fotografo è sempre regista, potremmo dire di finzione se costruisce la foto, documentarista se ritrae una realtà presente, ma comunque è autore – uno scrittore in senso di costruzione narrativa o emozionale. Sembra paradossale che questo status di narratore/giornalista fatichi ancora a essere riconosciuto ai fotografi, soprattutto nelle testate del nostro Paese. Nel mio caso la regia comprende anche la cura estrema della fotografia: è un elemento essenziale e indivisibile nell’equilibrio del risultato finale. Per ciò che mi riguarda, la fotografia pu significa, al contrario, maggiore libertà e serenità. Si può anche fare in solitudine e questo mi rassicura e corrisponde molto.

Che significato ha per lei il viaggio?
F.C.: Il viaggio è la droga perfetta, un po’ come il cinema, almeno per me che non sono particolarmente amante delle droghe vere. Ti permette continuamente di vivere sensazioni intense, ti fa scordare parte della tua realtà quotidiana, ti fa sembrare nuovo ogni giorno. E soprattutto non fa male al corpo. Ho viaggiato molto, anche in modo compulsivo. A un certo punto ho deciso di smettere, e il paragone con le droghe non è velleitario: come con le droghe o con l’alcool la dipendenza rimane. Ora la gestisco meglio. Il pericolo del viaggiare troppo è quello di sostituire i propri bisogni reali con esperienze forti, anche faticose, rischiose, belle e importanti, ma comunque lontane dalla quotidianità, dalla cura dei rapporti umani stabili, da un certo lavoro su se stessi, dalla noia, dalle scocciature – che sono il Paese più selvaggio e impervio da visitare. Questa è la mia esperienza personale. Detto questo, io amo qualsiasi cosa del viaggio: addirittura gli aeroporti, luoghi ideali di deresponsabilizzazione e serenità – a meno di non essere in ritardo. E contraddicendo ciò che ho appena detto, viaggiare è stato per me la palestra di vita più importante, quella che ha formato la mia volontà e i miei strumenti professionali ed esistenziali, per quanto effimeri siano.

Ha un progetto prima di partire o segue l’ispirazione del luogo?
F.C.: Entrambe le cose. Quando facevo il giornalista e il fotografo di reportage di viaggio pianificavo i progetti di base e poi accadeva di svilupparne di paralleli in corso d’opera. Come regista mi capitano entrambe le cose ma quando c’è l’elemento estemporaneo im previsto mi dà più piacere perché subentra la sorpresa: un innamoramento che non comprende tentennamenti. Qualche anno fa ero in Sardegna per altri progetti e rimasi letteralmente folgorato dalla bellezza delle paleoliche in Gallura: decisi allora di restare a girare un lavoro di visual art che ha avuto un buon esito.

Fotografia e documentario: racconto, arte o denuncia?
F.C.: Tocca un tasto cui tengo molto. Possono essere tutte queste cose, insieme o singolarmente. L’unico fattore importante è la qualità del risultato finale, punto. Sono un paladino della meritocrazia senza nessuna concessione a meno che non si parli di ambiti dilettanteschi o studenteschi. Sono di sinistra ma considero l’atteggiamento politically correct – tipico di molti tra quelli che si occupano del nostro settore – quanto di più nefasto, sbagliato e pericoloso ci sia per l’arte stessa e, soprattutto, per gli stessi propositi di natura sociale o politica. Trovo scoraggiante notare, ad esempio, come nella maggioranza dei festival italiani e non solo, un documentario o un film anche di mediocre qualità abbia molte più chance di successo se tratta tematiche sociali o politiche, spesso sempre le stesse. Il documentario cosiddetto di creazione o d’autore negli ultimi anni ha avuto un’evoluzione esaltante che sembra rimanere totalmente ignota ai più, sia per la gente del settore che per il pubblico medio. In Italia il documentario viene ancora identificato solo con la natura, la storia o, appunto, con il sociale. Mentre il fine eticamente condivisibile del trattare temi sociali o politici si onora solo attraverso film di qualità, altrimenti l’effetto è spesso opposto. Poi ci sono ottimi registi che riescono a fare entrambe le cose – alta qualità e impegno sociale – Giovanni Piperno è un esempio illuminante.

Cosa pensa della rivoluzione digitale?
F.C.: Evviva la rivoluzione digitale! Stiamo parlando dell’evoluzione tecnologica – che è inarrestabile e, come tale, oggi la viviamo rivoluzionaria ma i nostri figli la daranno per scontata. Come fotografo sono cresciuto con la pellicola, le diapositive – ma non ho alcuna nostalgia per quelle cose, fermo restando che nel bianco e nero la qualità analogica ancora non si è raggiunta col digitale, ma è questione di tempo. Ho perso decine di rullini con scatti irrecuperabili a causa del caldo umido nel Sud Est asiatico, ho speso milioni di lire per duplicare, stampare, correggere e spedire le mie diapositive, schiavo di laboratori spocchiosi. Oggi tutto questo non c’è più: tutto è più comodo, economico e alla portata di tutti. Se da una parte ciòsignifica livellare la qualità dall’altra in futuro spiccherà davvero solo chi ha qualcosa da dire. Mi auguro. Il mezzo non importa, l’importante è il risultato. Per ciò che riguarda la regia, se non ci fosse stato l’avvento del digitale non avrei mai fatto il regista credo. Il digitale ha significato la possibilità reale di girare e montare un lavoro professionale, qualcosa di impensabile prima. La differenza la fa chi utilizza il mezzo e come.

C’è una fotografia fra quelle della mostra alla quale si sente particolarmente legato?
F.C.: Tutta la sezione in bianco e nero, ma se mi metto a pensare alle singole foto alla fine trovo difetti in tutte, mi cruccio e non me ne piace davvero nessuna. Quella del busto decapitato e delle spighe a Cartagine non è malaccio.

Progetti futuri? Da attore, regista o fotografo? E in quale parte del mondo?
F.C.: Per ora non voglio muovermi, come regista inizio a montare un documentario girato nel corso di quattro anni, tra il Nepal e l’Italia, che racconta la storia di un uomo che vive in Umbria e si scoccia delle fidanzate italiane troppo carrieriste. Parte quindi per il Nepal in cerca di una moglie apparentemente tradizionale. Lo considero uno spunto per riflettere sul rapporto uomo-donna al di là del politicamente corretto. Come fotografo sto lavorando su un progetto realizzato in Palestina e Libano e, infine, come attore attendo che mi offrano qualche ruolo interessante e soprattutto consono alle mie tre espressioni, efficaci ma pur sempre tre.