Australian Film Week

Al Nuovo Cinema Aquila di Roma e al Centro Sperimentale di Cinematografia, in collaborazione con l’Ambasciata d’Australia a Roma, cinque giorni di cinema a ingresso libero per la rassegna Australian Film Week.

Una intensa settimana di cinema australiano per una rassegna che mette in luce film non ancora giunti nelle nostre sale e interpreti affermatisi successivamente poi nel cinema americano (Geoffrey Rush, Heath Ledger, Toni Collette, Eric Bana, Anthony La Paglia, Luke Ford e Kodi Smith-McPhee).

Sin dalla prima serata viene messa in evidenza l’eterogeneità della selezione dei film che rispecchiano lo status delle produzioni australiane, storicamente attente alla sceneggiatura e ai personaggi.

Ad aprire la rassegna è Two Hands (1999) di Gregor Jordan con Heath Ledger, una black comedy dalle venature sentimentali e dall’impianto di base poliziesco-gangsteristico. Un giovane finisce nei guai dopo aver eseguito un lavoretto sporco per conto di una dimessa banda di mafiosi di basso rilievo. A lasciare il segno in questo film sono la sceneggiatura, il ritmo, e l’ironia – a chiudere il cerchio – illusioni, disillusioni e vendetta.

A seguire Romulus, My Father (2007) di Richard Roxburgh (attore, segna il suo esordio alla regia), un dramma di grande e intensa memoria americana (ambientato negli anni ’60), per gli ampi spazi e i suggestivi scenari in cui è ambientato, e per le innumerevoli aperture prospettiche da cui può essere fruito. Il punto focale del racconto è Raimond (Kodi Smith-McPhee), figlio dell’emigrato rumeno Romulus (un Eric Bana decisamente in forma), del quale, lungo tutto il corso del film, assumiamo il punto di vista, rispetto agli avvenimenti di una crescita avvenuta troppo in fretta – con al centro sua madre Christina, interpretata dalla bella e brava attrice tedesca Franka Potente. Romulus è una storia toccante e coraggiosa, ed è uno dei punti di forza di tutta la rassegna.

Nella seconda serata vengono proiettati The Black Balloon (2008) di Elissa Down e Bran Nue Dae di Rachel Perkins (2010). Il primo narra la storia del difficile rapporto fra Thomas e suo fratello Charlie, affetto da autismo. Un delicato dramma che punta molto sulla scrittura e su un gruppo di attori in stato di grazia, fra cui sono da menzionare Luke Ford (già visto nel pregevole Animal Kingdom, in questo caso nel ruolo dell’autistico Charlie), Rhys Wakefield (il fratello Thomas), Gemma Ward (la giovane ragazza Jackie), Maggie e Simon (rispettivamente Toni Collette ed Erik Thomson, nel ruolo dei genitori).

Bran Nue Dae (anch’esso ambientato negli anni ’60), è invece un raggiante, colorato e dissacrante musical sul modello di Bollywood. Un canto, sommesso e vitale al tempo stesso, in un contesto effervescente di protesta, di rivolta contro gli obblighi familiari nella visione religiosa dei peccati e della prostrazione/frustrazione a essi. Nel cast è presente un ottimo Geoffrey Rush nel ruolo del prete. Ten Canoes (2006) di Rolf De Heer & Peter Djigirr apre la terza serata, e si rivela una suggestiva parabola sulla vita e la cultura aborigena in bilico fra documentario e finzione, in parte appesantita da una ridondante voce narrante che vuole spiegare tutto, anche elementi che andrebbero lasciati liberi all’interpretazione dello spettatore. Un prezioso racconto – raccontato attraverso l’antitetico contrasto tra colore e bianco e nero – con le caratteristiche di una favola che si sviluppa tra amori, passioni, gelosie, religioni, stregonerie e guerre.

L’ultimo giorno troviamo The Dish (2000) di Rob Sitch e The Man From Snowy River – L’uomo del fiume nevoso (1982) di George Miller (da non confondere con l’autore della serie di Mad Max), probabilmente i film meno riusciti del festival. The Dish è un omaggio volutamente celebrativo ai miti americani, a tratti dissennato e stereotipato. Un umorismo scomposto e uno stridente grottesco completano il quadro.

Infine, L’uomo del fiume nevoso, ambientato nel 1888, è la sentimentale ed epica (memore del cinema western americano) ricerca di un gusto decorativo del paesaggio selvaggio, attraverso il confronto fra un giovane esperto di cavalli e un ricco allevatore, che si contendono le attenzioni della solita giovane ragazza di turno. Il film è un racconto disteso (fin troppo), innestato sul versante più malinconico che crepuscolare del western andato (quello da dimenticare).

Complessivamente, la selezione si rivela riuscita, mostrando il fermento di idee e di di genere del cinema australiano, nonostante sia ancora oggi presente, in maniera preponderante, influenza del modello-base americano.