Rapina ai (porta)valori

Gli uomini d’oro racconta la trasformazione di persone qualunque in ladri, con una narrazione a incastro di matrice “tarantiniana”

C’era un tempo in cui, per dare una svolta alla propria vita, per migliorare la propria situazione o per raggiungere il successo, si faceva leva sullo studio, sul lavoro, sulla tenacia, sulla resistenza, più in generale sulla fatica. Oggi non è più quel tempo e l’unico modo per sperare di cambiare vita sembra essere il crimine.

È quanto hanno immaginato anche i protagonisti de Gli Uomini d’Oro – film ispirato a un vero fatto di cronaca – che, nella Torino del 1996, decidono di attuare un piano apparentemente perfetto. Luigi (Giampaolo Morelli), che vede svanire il sogno della baby pensione e del trasferimento in Costa Rica, decide di rapinare il furgone portavalori che guida ogni mattina. Ha però bisogno di complici, ed ecco che la banda si arricchisce di Alvise (Fabio De Luigi), severo e inflessibile compagno di consegne, nonché uomo dedito alla famiglia, dell’ex postino Luciano (Giuseppe Ragone), e di Lupo (Edoardo Leo), silenzioso ex pugile dalla poco marcata personalità. Dunque uomini “chiunque” (come li definisce il regista Alfieri) che si avventurano nella criminalità: ma il crimine è una cosa seria e non tutto andrà secondo previsioni.

Gli opposti tra cui si muove il film sono proprio questi: etica e delinquenza, correttezza ed egoismo, serietà e superficialità, ricchezza e valori, normalità e straordinarietà.

I protagonisti della vicenda sono, infatti, tutte persone “normali” – dipendenti modello, capifamiglia rispettosi, squattrinati che si barcamenano per tirare a campare – che si trasformano in autentici criminali. In questo senso assume valore la scelta di affidare tali ruoli ad attori “da commedia”, il cui volto è più facilmente associato dal grande pubblico a momenti di divertimento piuttosto che di tensione da thriller drammatico. L’operazione, coraggiosa perché potenzialmente fallimentare, si rivela invece particolarmente riuscita e offre peraltro l’opportunità a interpreti come De Luigi e Leo di smarcarsi dai rispettivi ruoli brillanti o, per quanto riguarda il secondo, da crime-comedy – ruoli ottimamente condotti ma forse diventati un po’ “stretti”.

Come tutti i piani ben congegnati, la pellicola presenta davvero limitati punti deboli. A livello tecnico gode di una colonna sonora ben confezionata, di un montaggio veloce che sfrutta inquadrature spesso in movimento, di un ricercato lavoro sulle luci e, più in generale, di una più ampia e riuscita ricostruzione degli anni ’90. Ma ancora di più colpisce, e convince, il progetto di scrittura: il film è diviso in capitoli, ognuno dei quali si focalizza su un personaggio e fa progredire la vicenda per gradi, rimbalzando avanti e indietro nel tempo e posizionando progressivamente i tasselli nel puzzle della trama. Ne deriva così una costruzione narrativa a incastro elaborata e godibile, in un certo senso “tarantiniana”.

Se poi i tre protagonisti siano iene o meno, si potrebbe discutere per ore. Perché se è vero che programmano e mettono in pratica atti delinquenziali, è altresì vero che lo fanno spinti da buone ragioni. Diventa così particolarmente emblematico il personaggio interpretato da De Luigi: persona normalissima, impiegato diligente, uomo severo con gli altri e con se stesso, leale marito, rispettoso e impegnato padre, costretto a tre lavori pur di mantenere la famiglia. Cosa conduce allora una persona del genere ad attuare una rapina? Due cose: il superamento del limite di sopportazione e, soprattutto, la volontà di garantire un futuro – forse anche un presente – ai propri cari. Le motivazioni che muovono i tre rapinatori, infatti, appaiono tutte valide: il desiderio di una vita soddisfacente, la necessità di mantenere la famiglia, la speranza di dare ai propri affetti un sogno da inseguire. Motivazioni talmente condivisibili che portano lo spettatore a immedesimarsi con i protagonisti che intraprendono il cammino della cattiva strada, e addirittura parteggiare per loro. Si tratta di una tendenza diffusa e innegabile del grande come del piccolo schermo, sia nazionale – basti pensare alla trilogia di Smetto quando voglio (in cui erano presenti gli stessi Leo e Morelli) o alla prima prova da regista di Tirabassi Il grande salto – sia internazionale, come avviene nel recente ed acclamato Joker di Phillips (relativamente all’emarginazione degli ultimi) o in una delle più seguite serie tv recenti come La Casa di Carta.

Si arriva dunque a una generale confusione di valori, che sposta inevitabilmente il discorso su un piano più alto. C’è ancora spazio, oggi, per i veri valori? Perché è diventato facile sentirsi vicini a comportamenti negativi o illegali? Che ruolo ha la società in tutto ciò? E soprattutto, è normale e accettabile che una società conceda ai propri cittadini di sognare soltanto al di fuori delle leggi?

Gli uomini d’oro non offre risposte, ma porta avanti il discorso in maniera abile ed efficace.

Bel colpo.

Titolo: Gli uomini d’oro
Regista: Vincenzo Alfieri
Sceneggiatura: Vincenzo Alfieri, Alessandro Aronadio, Renato Sannio, Giuseppe G. Stasi
Attori principali: Fabio De Luigi, Edoardo Leo, Giampaolo Morelli, Giuseppe Ragone, Gian Marco Tognazzi
Fotografia: Davide Manca
Montaggio: Vincenzo Alfieri
Scenografia: Ettore Guerrieri
Costumi: Patrizia Mazzon
Musiche: Francesco Cerasi
Produzione: Italian International Film, Rai Cinema
Distribuzione: 01 Distribution
Genere: noir
Durata: 110’
Uscita nelle sale italiane: 7 novembre 2019