L’alcol nella luna (appunti e reminiscenze sul nutismo)

Gli anni dell’adolescenza cinematografica, tra altri vari incontri/scontri che sono stati capaci di donarmi, mi hanno fatto cozzare piacevolmente contro gli scogli fenomenologici del nutismo.

Credevo a quel tempo di aver scoperto l’America del cinema italiano, lontano dal frastuono dei luoghi comuni che affollano la più tipica e troppo spesso retoricamente banalizzata “commedia all’italiana”.

Il mio era solo l’errore ingenuo di un ragazzetto ancora poco educato alla classicità dell’arte (e del cinema in species), un passo falso mosso verso qualcosa più grande di me. Qualcosa di solitario, narcisistico, introspettivo, malinconico e intellettualistico, tutti attributi che accorpandosi hanno dato adito al cosiddetto film auoriare (non d’Autore), che troppo spesso nel cinema di Francesco Nuti è apparso solamente come la pigra ombra di se stesso, troppo prudentemente ammantato di quel velleitarismo da provincia dotta, che con il pieraccionismo è divenuto puro vuotismo periferico.

Se è pur vero che Francesco Nuti sta a Nanni Moretti come Leonardo Pieraccioni sta a Mario Monicelli, in un certo qual modo il nutismo può essere considerato l’anticamera del morettismo, per il percorso a ritroso di un goffo quindicenne. E se oggi adoro e considero Nanni Moretti uno dei più efficaci e a la Avan Garde tra coloro che in Italia fanno ancora coraggiosamente cinema-verità, lo devo in gran parte anche al cinema tiepido e tranquillo di Francesco Nuti, in cui sono rinvenibili alla spicciolata trovate, idee e gesti che conducono al verbocentrismo autofrustrante del regista bolzanino.

Il nutismo ha sempre assorbito il solitario straniamento morettiano e non solo, ma ha continuato a baloccarsi eternamente fino a lasciar intravvedere la patina della lacca, con il cinema degli altri, come un bambino di provincia che gioca in una monumentale nursery di città.

Ecco che mi viene da pensare a Lou Castel in Grazie zia, mentre allinea i soldatini per la guerra del ’68, al Pin de Il sentiero dei nidi di ragno a cavalcioni di una partigianeria ancora acerba, o all’Agostino di Moravia sul litorale estivo, paonazzo di rabbia, paura e desiderio quando la madre si allontana sul pattino amoreggiando con un uomo sconosciutoe gli occhi sgranati che inghiottono gli sbilenchi filmetti del laconico fiorentino, caricandoli di senso, quel senso tenero e selvaggio spinto dai ricordi che riportano alle radici di un intimo passato.

Freghiamocene altamente dei dolly e dei carrelli stracompiaciuti e inseriti a sproposito, degli sfacciatissimi primi piani monocordi e delle facili fughe verso uno slapstick manierato, e compatiamo chi si accontenta di ridere vedendo il buffo con fossetta, en travesti che non si regge sui tacchi, per poi affogare nella pozzanghera di un facile sentimentalismo da soap. Ciò che resta è la consapevolezza di un fallimento esistenziale, rischiarato dal ricordo dell’infanzia, con Caruso bambino in spiaggia che conosce il sentimento affettivo nella sua forma primordiale, posto di fronte a quella che diverrà la passione-ossessione della sua vita: Giulia, come nello straordinario incipit de La Luna di Bertolucci e tutto riporta ad Agostino di Moravia, per sottolineare che la pudica esposizione degli attributi sessuali infantili davanti all’occhio di vetro (o riversi sulla coltre cartacea di un libro) sono la genesi del verbo Passion, tripudio gioioso della nascita dopo la gestazione, la prima casta e inconsapevole polluzione di un tredicenne.

Caruso Pasckoski è il fiore all’occhiello di questa prima eiaculazione affettiva, che autoreclusosi – come la monaca di Monza – nel proprio bagnato domestico, vi resta fino alla trasformazione estetica (con un cambio di scena quasi alla Jerry Lewis) che lo fa uomo solo nel corpo ma non nello spirito. Un elefantiaco infantilismo da manuale che per certe ragioni psicologiche appartiene forse più a Carroll che a Swift.

Tale infantilismo fiorisce rigogliosamente nei petti e nei sentimenti repressi dei vitelloni di Paperino, che dal tramonto fino all’alba vagabondano non come epigoni felliniani, ma come logica conseguenza di un grande sogno paterno rimasto inespresso e scaricato violentemente nelle loro fragili esistenze, costretti a friggere sotto il sole sempre uguale della propria natività. Essi divengono così animali notturni, consci delle proprie frustrazioni, vomitate fra i muri posticciamente punk di Radio Ketchup, e che schiaffeggiano neonati in culla come autopunizione per un bozzolo infantile mai rimosso.

Questa scheggia unica di cinema giancattivo è solo un’ala del nutismo montante, ancella di un manoscritto finito troppo presto nella bottiglia con la decapitazione della testa-pilota del degno compagno Benvenuti e con il rifuggire dalla disarticolata aggressività della compagna Cenci.

La condensazione della materia comica che il furetto toscano ostenta con ostinazione, fino all’estrema (cons)unzione della gag, non è l’eterna glaciazione della risata, ma il raffreddamento cardiaco dei battiti umoristici che si spengono cinicamente nel pianto. Raffreddando il motore si scopre la mollezza del sentimenti, che – se pur slavati e tirati via attraverso facili rimbalzi e singulti soapoperistici – restano l’unico tassello esistente di una malinconica tristezza attraverso la geografia del nostro cinecabaret.

Nemmeno la tenerezza balbuziente di Troisi o il mammismo coatto di Verdone hanno segnato così vividamente il segmento spezzato che porta dal sorriso alla lacrima: la circoscrizione ovattata di Isabella Ferrari con il pancione – che singhiozza nel bagno in Willy Signori – è la fibra un po’ sfibrata ma vibrante di un piccolo cinema perso in una grande idea (sogno?) di arte.

Il malinconico ricciuto abbiamo stabilito che preferisce la notte al giorno, forse per limare alcuni costi sull’impianti illuministici e scenografici (per la verità alquanto smilzi) anche nel vuoto transatlantico di OcchioPinocchio; forse per meglio testimoniare – attraverso il buio ancestrale del crepuscolo e la sua atmosfera catartica – il naufragio di una vita artistica e sentimentale, frazionato un po manicheisticamente tra la narcisistica misoginia del solitario e una dose di poesia ruffiana a base di alcol, biliardo e donne, passioni instabili per un artista medio che non si è mai rassegnato a rimanere nella propria bucolica medietà, ma che ha continuato ad avvitarsi esasperatamente alle belle speranze del cinema-cinema, finendo per corrodersi nei tristi cascami di un epoca in declino.

Il climax notturno, tanto illustrato e ricercato nel cinema nutiano, diviene quasi una costante fissa, sottratta con strafottenza al canto del gallo in Tutta colpa del paradiso, eccessivamente coccolata e accarezzata in Casablanca, Casablanca e poi stiracchiata in uno strascichio stranito, nei paesaggi road-noir di OcchioPinocchio. Se il buio notturno appare spesso un limite per eccesso di ricerca, la luce lunare ne diviene la giusta panacea.

Non la luna schiumosa di Melies, non la luna calda e materna di Fellini e Bertolucci, ma neppure le due lune che ci hanno recentemente regalato Rivette e Romero come ultimo approdo alla realtà dopo la morte (al lavoro) dopo l’incubo di celluloide e la finzione (e quindi uscimmo a riveder la luna): quella di Nuti più che una luna è una sorta di ebrezza lunare, una dolce ubriacatura che con i suoi pallidi raggi alcolici, investe storie e personaggi senza spessore, donandogli una vaga aurea poetica.

Dannazione versus delizia, la dannazione dell’alcol, liquido che per troppo tempo ha eroso il corpo e lo spirito di questo simpatico e fragile vagabondo, offuscandone sempre più la a suo modo inimitabile vis comica, trasportandolo alla mollezza e alla afasia della sconfitta artistica e personale, mentre la delizia è il piacere di quell’alcol eburneo che ancora rischiara certe sue gracili pellicole (anche sul piccolo schermo) resta, come nel muto Pierrot provinciale, suo fanciullino interno che non ha ancora trovato la sua giusta dimensione poetica, capace di contenerlo.