Ritratti d’Autore

Ferran Paredes Rubio (Barcellona, 1975) è un direttore della fotografia spagnolo. Dopo essersi formato come fotografo presso l’Institut d’Estudis Fotogràfics de Catalunya, comincia a lavorare come fotogiornalista per alcune testate spagnole e per l’agenzia Reuters. Nel 2003 si diploma presso il Centro sperimentale di cinematografia di Roma. Fra i molti film italiani di cui ha firmato la fotografia, Febbre da fieno e Fiore gemello di Laura Luchetti, Zoran di Matteo Oleotto, L’ora legale di Ficarra e Picone e Il sindaco del rione Sanità di Mario Martone. È il direttore della fotografia fisso del regista napoletano Edoardo De Angelis, accanto al quale ha fotografato Mozzarella Stories (2011), Perez. (2014), Indivisibili (2016) e Il vizio della speranza (2018), e con il quale è tornato a collaborare per il film televisivo Natale in Casa Cupiello, adattamento del testo di Eduardo andato in onda su Rai1 lo scorso Natale.

Come hai conosciuto Edoardo De Angelis? Come si è sviluppata la vostra collaborazione fra Mozzarella Stories, Perez, Indivisibili e Il vizio della speranza?
Ferran Paredes: «È stata un’affinità elettiva. Noi ci conosciamo dal Centro Sperimentale anche se non frequentavamo lo stesso anno. La cosa più bella del CSC è che durante questi tre anni conosci potenzialmente trenta registi e parlandoci al caffè o in pausa capisci con quale ti senti più in sintonia. Con Edoardo c’è sempre stato un amore in tutto, nel tipo di cinema che preferiamo e anche umanamente.
È cominciato tutto così. Poi appena finita scuola lui ha cominciato a girare fuori dal CSC e mi ha chiamato. Abbiamo iniziato a collaborare con un corto molto piccolo, Fisico da Spiaggia, abbastanza divertente. Poi abbiamo girato Mozzarella Stories e da lì c’è stato amore mutuo, tutt’oggi siamo molto amici».

Avendo vissuto tutta la sua carriera affianco a lui hai notato un’evoluzione nel suo cinema?
FP: «Secondo me la svolta vera è avvenuta con Indivisibili. Fisico da spiaggia era un corto e lo abbiamo girato in un paio di giorni. Mozzarella Stories era girato in pellicola 35 mm e quindi con macchine da presa più ingombranti ed era una commedia anche grottesca. Poi era il suo primo film e uno dei miei primi film, lui ha sofferto molto la messa in scena: il blocking, la preparazione, i movimenti. quindi secondo me francamente c’è qualche piccolo problema di messa in scena, fisiologico in opera prima.
Dopo Mozzarella Stories avevo questo pensiero, mi dicevo che non poteva girare con questa sofferenza. Quindi per Perez, grazie alla nuova testata Movi che all’epoca era quasi un prototipo che non reggeva macchine da presa ingombranti, gli dissi: “c’è questo nuovo sistema, non è una steadycam (che entrambi non sopportavamo), se ti va proviamolo; così il movimento non è un carrello e puoi lasciare liberi gli attori, perché sono io che li vado a inquadrare”. Da lì in poi lo abbiamo rovinato, Edoardo, perché senza una macchina del genere non vuole proprio girare e anche Natale in Casa Cupiello è stato fatto così. Su Perez diciamo che abbiamo un po’ messo a punto questa tecnica, lui l’ha “digerita” e su Indivisibili secondo me l’abbiamo usata al meglio, anche per le caratteristiche del film, che non è un road movie ma c’è comunque molto movimento. Ci ha permesso raccontare la storia lasciandole molto improvvisare ed essere sé stesse, pedinandole, è quasi un film di osservazione. La cosa bella con Edoardo è che è sempre molto pronto a provare nuove tecniche e nuove soluzioni per quello che pensiamo possa essere giusto per il rapporto. Ogni film introduciamo elementi nuovi e in questo modo ci arricchiamo a vicenda. Queste lunghe collaborazioni sono bellissime ma alla lunga possono stancare, bisogna sempre fare nuove cose, come in una coppia».

Casa CupielloCome sei stato coinvolto invece in Natale in Casa Cupiello? Quali reference visive ti ha dato De Angelis e quali sono state le novità rispetto alle precedenti collaborazioni?
FP: «Su Natale in Casa Cupiello una cosa che non avevamo mai fatto è stata la macchina a mano: tutto il primo atto era in macchina a mano, cosa che per Edoardo è quasi una bestemmia, ma invece dopo averla provata gli è anche piaciuta. Essendo un film tratto da una pièce teatrale lo abbiamo diviso in atti, e ogni atto è molto diverso dagli altri: volevamo renderli diversi sia fotograficamente che registicamente. Quindi abbiamo scelto la macchina a mano il primo atto per presentarli, stare vicino a loro, evitare troppa staticità dato che lo spettacolo è molto fermo e nel primo atto Luca Cupiello sta quasi sempre a letto. La nostra preoccupazione era, dal momento che è così rigido, come potevamo dare una freschezza al film, dei movimenti, dei punti di vista emotivamente dinamici. Per il secondo atto invece abbiamo usato il Ronin e per il terzo dei carrelli molto più statici, “psicologici”. Anche girare tutto in una location unica, con luci dall’alto abbastanza teatrali, era una cosa nuova per Edoardo, perché non gli piace vedere stativi in campo e vuole avere sempre un 360 disponibile per la messa in scena. È un’idea che dà molti dolori di testa, ma poi si ringrazia perché si vede che gli attori hanno maggiore libertà di movimento ed è bello. L’importante è che il film sia ricco, quindi che gli attori siano bravi e liberi di muoversi. Magari la fotografia è un po’ meno bella perché si voleva avvicinare di più uno stativo o una luce, però capisci che è più importante il film della fotografia».

Tu hai recentemente fotografato anche Il sindaco del Rione Sanità di Martone, tratto anch’esso da De Filippo. In che cosa sono simili e in cosa erano diversi il film di Martone e il film di De Angelis?
FP: «Martone aveva stravolto completamente Eduardo, sia per l’età protagonista sia per la modernità costumi e del modo di parlare. Non saprei dire quanto siano stati importanti o no le versioni di Eduardo, ovviamente le abbiamo viste entrambe, sia quella del ’62 che quella del ’77, anche solo come forma di rispetto verso un grande autore. Io sono di Barcellona e ho scoperto Eduardo solo venendo in Italia, ma penso davvero sia il drammaturgo più importante del Novecento. Per fare film “suoi” ho dovuto studiare i suoi testi e ho un grande rispetto per lui. I dialoghi, la messa in scena, sono tutti elementi da non prendere sottogamba, non si può stravolgere tanto per».

In quale misura avete tenuto conto delle originali versioni della RAI di Natale in Casa Cupiello dirette e interpretate dallo stesso De Filippo, e in che modo avete lavorato, pur partendo da un testo teatrale, per dare una specificità cinematografica al film?
FP: «Noi non abbiamo cambiato più di tanto: la divisione in atti è rimasta com’era, le posizioni in scena sono molto simili a quelle del ’77. La versione del ’62 forse è più cinematografica perché non c’è il sipario e i punti di vista della macchina cambiano di più; quella del ’77 più teatrale, più dalla prospettiva dello spettatore. A teatro il punto di vista è sempre frontale, noi volevamo invece girare attorno agli attori con dei piani sequenza per rendere di più la tridimensionalità e avere meno stacchi al momento del montaggio, dando dinamicità e “verità” allo spettacolo di teatro. Di solito la grande differenza è l’innegabile visione centrale del teatro, nel film abbiamo inventato due o tre scene esterne, come quando lui va a comprare le statuette del presepe, per dare la sensazione di uscita dal palcoscenico, dargli un contesto più ambientato nel mondo vero. Siamo stati comunque molto rispettosi dell’originale di Eduardo, ci siamo sempre detti di non sconvolgere il testo tanto per sconvolgerlo, alla “facciamolo strano”: se è così bello, così forte il testo, non c’è bisogno di dargli una modernità».

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Con quale macchina da presa avete girato Natale in Casa Cupiello e con quale set di lenti?
FP: «Abbiamo usato una MiniAlexa con obiettivi MasterPrime della Zeiss. In un primo momento avevamo pensato agli anamorfici, ma siccome era un film per la TV e c’erano alcune incertezze sul formato abbiamo optato per girare con lenti sferiche, come invece avevamo girato Il vizio della speranza. Siamo comunque molto soddisfatti, sia degli obiettivi sia della macchina da presa».

Dove è stata girata la casa? Come ti sei relazionato con il reparto scenografia?
FP: «Era una casa in via Tribunali, al centro di Napoli, che hanno ricostruito completamente, buttando giù anche qualche parete per adattare ambiente al racconto. La cosa che affascinava molto Edoardo era il questo terrazzino dove si poteva creare il rapporto esterno–interno, da fuori si entrava fino a dentro».

Prima di iniziare a girare tu e De Angelis avete impostato una LUT in accordo col colorist?
FP: «La pandemia non ha reso facile la preparazione del film, non eravamo in lockdown ma molte cose non si potevano fare. Avevamo comunque molte reference e moodboard che ci mandiamo spesso».

Come avete girato il piano sequenza iniziale? Come hai gestito a livello di diaframma il passaggio da esterni in interni, come erano scenograficamente realizzati gli esterni?
FP: «In realtà, a differenza del primo atto, quella scena iniziale è stata girata con il Ronin. Una volta abbiamo fatto un piano sequenza quasi fino alla fine del primo atto, perché a Edoardo piace fare così, magari anche a scapito degli attori che impazziscono: lui va avanti, se non c’è un problema non dà lo stop. Questo piano sequenza era soprattutto per quel discorso di rendere il vero e di ricreare l’ambiente di quella Napoli del dopoguerra, quella Napoli con la neve e col freddo per poi entrare a casa e presentare il personaggio protagonista. A livello di diaframma… beh, ce la siamo cavata con molti sudori e molte notti insonni. A noi piace molto girare all’imbrunire o all’alba. Questa scena iniziale l’abbiamo ambientata all’alba con la neve, ma lei comunque dice che sono le 9, quindi non potevamo neanche far vedere che fosse molto presto. Doveva essere un’alba di inverno, allora l’abbiamo girata all’imbrunire: non scordiamoci che abbiamo girato a luglio e agosto, faceva caldissimo e gli attori erano pieni di vestiti. A livello di diaframma non è stato complicatissimo, senonché girando all’imbrunire la luce si abbassa molto velocemente: c’è un momento di equilibrio tra interno ed esterno, poi man mano che giri se scende luce esterna l’interno si vede troppo illuminato. Però grazie alla tecnologia adesso con l’iPad possiamo settare le luci facilmente. Già ai tempi di Indivisibili questi passaggi dall’esterno all’interno erano molto più complicati. Insomma, ci sono stati piccoli cambi di diaframma ma alla fine non è stato un vero problema, è più la sensazione che vuoi dare, se decidi di creare luci che accompagnino il racconto devi stare attento perché le trovi in momenti della giornata che cambiano velocemente».

A metà film c’è una scena in esterno notte in cui Luca Cupiello va a comprare nuove statuine del presepe in un piccolo negozio non lontano da casa. In questa e in altre scene simili, come hai mantenuto l’equilibrio fra il buio, l’effetto della neve e la necessità di illuminare gli attori?
FP: «Quella paradossalmente è stata la scena più semplice perché era notte per davvero: la luce non cambiava più. È stato anche divertente perché dovevamo scendere le scale camminando all’indietro con la neve che era scivolosa. Bisognava orchestrare bene in primis con l’attore, come sempre, e poi dovevamo regolarci con la neve: all’interno del negozio Luca parla con il venditore ed è presa diretta, ma la macchina della neve era molto rumorosa; dovevamo stare molto attenti a quando si accendeva e spegneva per l’audio. Per una volta non era la fotografia il problema principale! Abbiamo solo sistemato le luci e poi non c’è stato bisogno di cambiarle, l’avremo girata quindici volte».

Natale in Casa Cupiello vede nel reparto tecnico il pluripremiato costumista Massimo Cantini Parrini: come hai impreziosito, a livello di luci, la fattura artigianale dei suoi abiti?
FP: «Con Massimo è una collaborazione perfetta, i costumi vivono da soli. A volte, su Indivisibili per esempio, c’era qualche dubbio perché qualcosa magari era troppo sgargiante, con i catarifrangenti, piccole cose tecniche su cui succede di doverci confrontare, ma collaborare con lui è veramente un piacere. I costumi sono così inerenti al film che ti regalano subito quell’atmosfera, non va aggiunto né tolto nulla. Anche con le scenografie di Carmine Guarino, che come me ha fatto tutti i film di Edoardo, non abbiamo quasi bisogno di parlare, so che quando arrivo sul set è tutto perfetto. Poi magari ne discutiamo e ne parliamo brevemente. Per i costumi è lo stesso. A noi piace fare preparazioni un po’ lunghe e osserviamo man mano che i set si costruiscono tra prove costume e ristrutturazioni, così capisco anche che obiettivi o che luci usare. È tutto molto organico, non ho mai avuto problemi, davvero. Sono fortunato a poter lavorare con Massimo e con Carmine, con entrambi c’è una collaborazione perfetta e nessuno si offende se l’altro chiede qualche piccola aggiustatura all’altro. Sappiamo che l’obiettivo di tutti è ricreare l’atmosfera più giusta».

Come hai caratterizzato visivamente invece l’elemento scenografico dei presepi?
FP: «Per quanto riguarda il presepe, l’illuminazione è sempre frutto della collaborazione con Stefania Vigna che faceva l’art director e ha messo delle lucette all’interno come piacevano a noi. La cosa interessante è che abbiamo usato questo obiettivo di cui non so esattamente il nome tecnico, sono obiettivi macro che ti permettono di avere un rapporto a scala con le figure del presepe. Nelle scene in cui la macchina da presa sembra entrare nel presepe, le statuette erano molto piccole e serviva un obiettivo che ci permettesse di insinuarci nell’ambiente. Le statuette le abbiamo mostrate a figura intera e così prendevano vita. La Mini Alexa era posizionata su un carrello Fisher, perché i movimenti che fai sono piccolissimi, anche perché questi obiettivi sono molto delicati per fuoco e movimenti. Però è stato divertente, Edoardo era un po’ scettico quando ha visto l’obiettivo, ma poi è rimasto molto contento e abbiamo passato mezza mattinata a fare esperimenti.
Secondo me rende bene, sono contento di averlo usato, mi piaceva che il presepe avesse l’importanza che ha dentro il racconto».

Nel finale sostanzialmente negativo dello spettacolo e del film – Luca, caduto vittima di un ictus, si riconcilia con il figlio Antonio ma non capisce la tragicità della sua situazione – tu hai deciso di mantenere una luce brillante, quasi a trasmettere finalmente la gioia del Natale. Perché avete optato questa soluzione? Come hai illuminato le finestre della casa?
FP: «Hai ragione, è una luce molto brillante ma è molto facile da spiegare. A me piace molto Goya, nel Dos de Mayo c’è un ragazzo scuro di carnagione con la camicia bianca illuminata e le braccia larghe mentre stanno per fucilarlo. Era un segno di purezza. Questa immagine mi girava in testa, la portavo molto con me. Il terzo atto alla fine è proprio quello: un uomo che si sbaglia, se vuoi comicamente perché è abituato ad avere la fiaba davanti ai suoi occhi, ma alla fine sceglie l’amore in un certo senso, magari confondendosi, ma capisce che i due amanti sono quelli che si amano davvero. Mi sembrava che fosse molto puro, in quel momento: all’apice del suo disorientamento sceglie l’amore che sente per sensazione e non per convenienza. Mi piaceva molto questa immagine del Dos de mayo con il resto anche abbastanza cupo, quindi questa luce un po’ calda.
Nella divisione degli atti che dicevo all’inizio il primo atto ha una luce molto fredda che viene da fuori e un po’ di luce calda dell’interno, volevamo mantenere il freddo dell’esterno e il calore della famiglia. Il secondo atto caldo è molto caldo perché sono all’interno, è notte e quindi sono illuminati dalle luci dell’epoca. Il terzo è come se dentro la casa fosse freddo, perché Luca si sta spegnendo, e dall’esterno entra questo fascio di luce calda. Ci piaceva anche per Goya che nel momento di delirio massimo ci fosse questa purezza finale, anche perché alla fine rimane il presepe vero: il figlio dice “Mi piace il presepe” e quindi Luca può finalmente riposare in pace. È tutta un’illusione, lo sappiamo, Luca però è felice e puro, il motivo vero è la purezza. Tecnicamente, affacciandoci su via Tribunali, abbiamo dovuto mettere delle luci dalle finestre dei palazzi davanti. È stato molto pittoresco, molto napoletano mettere tutte quelle luci all’interno delle case delle persone».

La post-produzione in quale stabilimento si è svolta e chi era il colorist? Quali sono stati i principali interventi di color a montaggio finito?
FP: «Il colorist è stato il migliore d’Italia: Andrea Baracca detto Red. L’abbiamo fatta alla Flat Parioli e devo dire che è stata una passeggiata di salute, essendo tutto in un’unica location con le luci molto controllate, con tre soli atti dentro in cui la luce non cambiava più di tanto. L’unica difficoltà era che tutte le scene girate in settimane diverse avessero una continuità fotografica, ma RED è bravissimo e ha fatto tutto lui, io andavo lì a prendere il caffè. Purtroppo nei passaggi televisivi un direttore della fotografia soffre parecchio, perché ognuno ha la tv impostata con setting diversi e si perde il tuo lavoro di color, quando un film passa al cinema almeno sai che chi l’ha visto in sala ha visto il tuo lavoro come volevi».

C’è sempre una sorta di diffidenza, soprattutto in questi casi in cui l’autore è un mostro sacro come Eduardo, nei confronti delle trasposizioni al cinema o in TV dei testi teatrali o dei romanzi. C’è qualcosa che va salvaguardato, qualcosa che il cinema o il teatro deve tenere rispettivamente per sé, o si possono sovrapporre su tutto?
FP: «È una domanda difficilissima. L’unica cosa che va mantenuta, se vuoi fare un adattamento fedele (soprattutto da teatro a cinema), è il fatto di rispettare l’intenzione, l’emotività di quel momento. Puoi cambiare le battute, puoi modernizzare, puoi modificare i costumi, ma devi rispettare le intenzioni originali, secondo me. È inutile fare Natale in Casa Cupiello e rendere Luca un supereroe o un genio della matematica, a quel punto fai un’altra cosa. Devi mantenere che lui è un illuso ma buono, tutte caratteristiche dei personaggi che vanno rispettate. De Filippo lo rispetti così tanto che a volte sbagli perché lo rispetti troppo. Sono passati tanti anni da quando lui l’ha scritto, è del 1931 questo spettacolo, ma la sua bellezza sta nelle intenzioni originali, puoi cambiare qualche battuta o lo stile dei costumi ma l’intenzione deve rimanere. È vero, ad esempio, che sul Sindaco del Rione Sanità c’è stato chi non ha apprezzato questi cambiamenti, ma molti altri l’hanno visto e apprezzato proprio perché modernizzato e perché c’erano personaggi giovani e più “gomorreschi”, per intenderci. Magari uno spettacolo ripreso in modo più classico, a mo’ di spettacolo, non arriva a un pubblico giovane o meno conformista. Il mondo è bello perché è vario e non puoi trovare una quadra, ma il rispetto alle intenzioni dello spettacolo è prioritario. Martone l’ha fatto e penso che lo abbiamo fatto noi, in un modo anche più fedele alle trasposizioni filmiche di Edoardo se pensiamo alla versione del ‘77».

Dopo la messa in onda di Natale in Casa Cupiello il 22 dicembre 2020, quale sarà il tuo prossimo progetto come direttore della fotografia?
FP: «Il mio prossimo progetto è la stagione finale di Gomorra 5. È vero, giro molto più a Napoli che a Roma. Ci deve essere una certa vicinanza fra Aragona e Napoli! In fondo c’è un passato storico comune».

L’intervista è stata realizzata assieme a Tobia Cimini

Si ringrazia Lorenzo Castagnoli (Digital Cinema Crew) per la collaborazione e la consulenza tecnica