Banksy (Wall and Piece)

In Italia esistono i “liberi” di Stato (ossia i divorziati perché, si sa, la libertà difficilmente può garantirla un’istituzione che, per sua natura, è spesso coercitiva ed espressione di una cosiddetta maggioranza). Dalla metà di agosto però ci saranno anche i disoccupati di Stato: quegli 80.000 pubblicisti circa che, se non vorranno incorrere in sanzioni, non potranno più dirsi giornalisti e c’è da chiedersi se dovranno, per ottemperare alla Legge, anche correre (possibilmente tutti insieme la prima data utile, ossia il 17 agosto) in Comune a farsi rifare la carta d’identità.

In un’epoca che vuole cancellare i diritti (come l’articolo 18 per permettere i licenziamenti ingiustificati così da assicurare – per la legge del contrappasso – lavoro indeterminato a tutti), non è quindi strano che 80.000 persone, da un giorno all’altro, si vedano ridefinire il proprio status: da giornalisti a generici “collaboratori”.

Se questa vi sembra la solita difesa a oltranza di un Ordine o di un retaggio da Arti e Mestieri, vi sbagliate. Infatti, se si fosse voluto liberalizzare la professione, si sarebbe semplicemente eliminato l’Ordine dei giornalisti e la salvaguardia della libertà intellettuale degli stessi (l’unica vera ragione per cui avrebbe dovuto sussistere un Ordine) sarebbe passata al Sindacato (così come avviene in molti Stati europei e negli Stati Uniti – dove, peraltro, la libertà intellettuale è a rischio per ben altri motivi, come raccontano ad esempio Noam Chomsky ed Edward S. Herman in La fabbrica del consenso). Mentre la problematica di scindere tra giornalismo e pubblicità – già oggi una foglia di fico – sarebbe sconfessata comunque da tutte quelle pubblicazioni (dal mensile dell’editore televisivo al periodico di arte o moda) che mascherano redazionali e comunicati stampa con un titolo, un occhiello, un sommario e una firma.

D’altro canto, se il fine fosse quello di liberalizzare la professione, non ci si sarebbe appellati alle normative europee che prevedrebbero un Esame di Stato per esercitarla, dato che nella stragrande maggioranza dei casi, in Europa, non esiste l’Ordine e si è giornalisti se si lavora in una redazione – così come si è bancari se si lavora dietro lo sportello di una filiale. Ma anche qui la disinformazione è grande (e quando è “grande la confusione sotto il cielo…”, non sempre la situazione è ottima – con buona pace del Timoniere Mao).

Si è quindi deciso di fare come sempre in Italia e, in quest’ultimo periodo, con maggiore vigore e determinazione: colpire i diritti dei lavoratori attraverso quelli più deboli.

Se nel mondo del lavoro in generale bisogna togliere l’articolo 18 per rendere tutti ricattabili e proni a qualsiasi richiesta del padronato, in editoria si finge che i pubblicisti non siano dei professionisti – semplicemente non pagati o pagati meno degli altri. In Italia, infatti, con le attuali regole si diventa professionisti solo dopo 18 mesi di praticantato (in tre anni), effettuato con contratto a tempo pieno. Tali contratti di praticantato sono però chimere almeno quanto le assunzioni a tempo indeterminato nelle altre professioni – e tra part-time, collaborazioni a progetto, saltuarie e partite Iva fasulle (che il lavoratore è costretto ad aprire dal datore che riversa su di lui il proprio rischio d’impresa), le redazioni in questi anni si sono riempite di persone che lavorano per 600 euro mensili (se e quando va bene) e che non potranno mai essere considerate “professioniste” – anche perché nelle redazioni, di destra e di sinistra, non mi è mai parso di vedere le cosiddette “firme” strapparsi le vesti per gli stagisti e i pubblicisti coi quali lavorano fianco a fianco ma che percepiscono un terzo, un quinto o persino un decimo del loro stipendio.

L’alternativa in questo bailamme di ipocrisia è quella di “nobilitare” le scuole di giornalismo, oggi soprattutto istituti privati che, in un paio d’anni, dovrebbero insegnare tutto lo scibile umano, ignorando due punti essenziali: primo, un giornalista non è un avvocato. Apprendere il diritto, praticarlo in uno studio – per quanto spesso questa pratica si riduca a fare servizi di cancelleria e segreteria presso i legali – e poi, dopo un esame di Stato, iniziare la professione di procuratore è altra cosa rispetto a imparare a fare il “giornalista” ossia, come viene inteso oggi: saper scrivere un sommario o far funzionare una videocamera. Quanto si apprende in una scuola di giornalismo o in una redazione non c’entra nulla con il saper analizzare, sintetizzare e spiegare un argomento o la realtà sempre più complessa che ci circonda – fine ultimo del giornalismo. Del resto, un economista potrà scrivere di economia ma non di letteratura, un biologo certamente non ipotizzerà la costruzione di un tunnel tra il Cern di Ginevra e il Gran Sasso ma non potrà dilungarsi su temi artistici, mentre è tuttologia di bassa lega mettere chiunque a scrivere di qualsiasi argomento o pretendere, al contrario, che un laureato in lettere cum laude – o meno – non sappia scrivere perché non ha frequentato una “scuola di giornalismo”. Secondo, ci si chiede perché non si fanno mai le pulci a queste scuole che sfornano i cosiddetti giornalisti professionisti, obbligati allo stage gratuito in redazione, ulteriore carne da macello per redazioni della carta stampata e tv – che li usano e poi li liquidano quando dovrebbero assumerli regolarmente (e le prove documentate di quanto scrivo ci sono, altrimenti non lo scriverei).

La mia proposta, di pubblicista a tempo determinato e laureata a tempo indeterminato – fino al prossimo decreto – è che tutti i colleghi vadano a rifare la carta d’identità il 17 agosto: da quella data ci saranno 80.000 persone che lo Stato valuta inutili, ignoranti e millantatrici, alle quali è però obbligo che abbia almeno il coraggio di chiamare con il nuovo titolo che vorrebbe affibbiare loro: DISOCCUPATI DI STATO.