Gli inizi degli anni ‘90 sono stati per D. Lynch un periodo denso di progetti che vanno dalla pubblicità (Armani, Dior, Klein… ) al teatro ─ con Industrial Symphony n° 1. The Dream of the Broken Hearted (in mezzo, video musicali, televisione, mostre fotografiche e di pittura) ─ entrambi possibilità di racchiudere, costringere, concentrare entro un tempo limite l’una, e dentro uno spazio dalla cornice ben limitata l’altro. Tempi e spazi che naturalmente Lynch libera da ogni limitazione ‘fisica’.

Sfondando e sfaldando lo schermo TV in dissolvenze e sovrimpressioni, “vuoti-pieni si popolano e spopolano di carne e sangue, in un crescendo di suspense hard. Fino all’avvicinamento estremo, al contatto, al contagio, all’impossibilità di distinguere oggetti e soggetti, in un lungo/corto spappolamento di corpi” (vedi il testo “D. Lynch. Film, visioni e incubi da Six Figures a Twin Peaks”).

Lynch riempie il palcoscenico di un teatro fino all’esplosione/implosione: “Tutto termina in una sorta di pacificazione fredda di pioggia di polvere luminosa” (vedi sopra), così che alla fine di “Industrial Symphony” ogni cosa sembra infinitamente leggera e insostanziale, tutti avvolti da immagini e non più corpi nel presente, bensì “suoni gelidi oltre la morte, mentre i corpi non sono altro che escrescenze materico-evanescenti, sbattuti a velocità super in tutte le traiettorie disegnate in quel corpo lunare, senza più bisogno di forza gravitazionale, che è diventato il palco-set” (M. Chion). Come se i nostri occhi fossero mutati in quelli di John Merrick in  The Elephant Man”.

Tempi corti/lunghi si diceva, e in questo senso va il primo lavoro di Lynch per la televisione, che non è Twin Peaks, tra l’altro girato in 35mm e poi riversato in video, ma The Cowboy and the Frenchman, interamente realizzato su video. Il corto riesce nell’operazione estrema, quasi illusoria tale è la sua grandezza, di unire il cinema americano più classico con la cultura europea per eccellenza, in base agli stereotipi che questi due ‘specchi’ si riflettono l’un l’altro: il western con i suoi cowboy/indiani, e i bohémiens e l’esistenzialismo. L’impresa è talmente ardua e colossale (viene in mente un’altra rarità: “Lonesome Cowboys” di Warhol) che Lynch non poteva che adottare un registro comico, anche se in una nuova forma.

Infatti, un gruppetto di cowboy rimbambiti, vede arrivare dal nulla un giovane e spaesato francese che straparla con gli occhi sbarrati di aver visitato New York e di aver incontrato delle persone simpatiche che gli hanno offerto pillole di tutti i colori (droga?), così che l’isola di Manhattan, ceduta dagli indiani per un tozzo di pane, gli si rivela in una luce tutta bianca, e da allora un indiano lo insegue. Slim il sordo, non capisce cosa dica questo bizzarro straniero e, temendolo un alieno comunista, vuole vedere cosa contiene la sua valigetta.

Tra le tante banalità che ne escono (la baguette, la turistica riproduzione della Tour Eiffel, il Camembert, ecc… ) le patatine fritte sono l’elemento che permetterà loro di riconoscersi (le pommes-frittes in U.S.A. si chiamano french-fries); e lumache cotte e crude che schiferanno i nostri cowboy.
i accenna alla seconda guerra mondiale e al conflitto tra cowboy e indiani, ma oggi il conflitto tra loro non esiste più, almeno al cinema, anzi essi scommettono soldi assieme è detto nel film. Insomma, Lynch gioca con tutti gli stereotipi (concentrazione di immaginario) e luoghi comuni, “un azzeramento nelle linee mono-espressive della visione” (vedi testo citato all’inizio).

Mentre dall’alto tre ‘ladies’ cantano il tempo e il suo lento passare nella frontiera, arrivano quattro parruccone tra Ida Lupino e Marilyn Monroe, per passare tutti la notte assieme. Di notte, nel buio: musica, buon cibo, birra, poesia e danza, cavalli e cancan, teatro e circo, cabaret e rodeo, tutti uniti in un profluvio di sovrimpressioni, una festa che si prolunga all’infinito; tutto il tempo e lo spazio si fondono in una danza vorticosa, country e musica classica, calde biondine con i jeans e fredde ‘esistenzialiste’ con la frangetta e la camicia bianca, non c’è più differenza: è l’amore.
E’ ancora la sovrimpressione a permettere questo miracolo, forma di espressione in cui le immagini, toccandosi, compenetrandosi parlano tra loro, si inglobano a vicenda, fino ad assomigliare a qualcosa che è un linguaggio che non avevamo mai parlato, mai visto.

Lynchaffronta la distanza medio-breve del cortometraggio viaggiando lungo le strade della Frontiera, impressionando immagini quasi pittoriche sul corpo video. Un corpo sul quale la memoria (…eraserhead… )si può cancellare e riprodurre in tempi brevissimi. E lì, Lynch ravviva i tempi della sospensione del suo fare cinema, magmatico e impalpabile, cortissimo/lunghissimo” (David Lynch. Film, visioni e incubi…) cinema infinito e brevissimo, tutto in 22 minuti.
E’ un canto d’amore a metterli tutti insieme per ricreare il mito; davanti a loro riuniti in cerchio una versione nana della Statua della Libertà e uno sparo di pistola: ambiguità del mito.

Da tutte queste sovrimpressioni sfugge qualcosa: sguscia fuori una viscida lumaca coperta di mosche, ma si sa da un’intervista che, quel qualcosa che passa tra due amanti, Lynch se lo immagina come un insetto.

All’estremo opposto Hotel Room, “film claustrofobico tutto ambientato in camere piene di foto di treni” (U. Mosca), altro progetto per la TV, di cui Lynch realizza due episodi, Tricks e Blackout, entrambi sceneggiati da Barry Gifford, quello di “Strade perdute”.

La camera è sempre la stessa (redroom), la 603; cambia l’epoca, il 1969 per il primo episodio, il 1936 per il terzo. Ritorna l’ossessione per i treni, le cui foto ricorrono in tutti e tre gli episodi (e presenti in forma comica anche in On the Air, dove i gemelli siamesi Stantuffo girano per lo studio imitando il treno; On the Air è ancora un altro programma televisivo creato con Mark Frost, straordinario esempio di collasso del codice comunicativo generatore di creatività).

Il buio e l’immobilità: nel buio avvengono sostituzioni, affiorano i ricordi, tutto si bagna nell’indistinto, “lo spettatore mantiene un legame con ciò che sta vedendo (o non vedendo) soltanto per mezzo della parola. Le voci escono dal buio come se fossero prodotte da esso” (R. Caccia).

Come in una camera oscura, le immagini nascono nel timore che la troppa luce le cancelli (il bacio finale, nella luce dopo il Blackout); un teatro delle ombre, una lanterna magica, inconsistenza materica, al punto che non è possibile distinguere tra una persona ed un’altra (Tricks).

Uno spazio cinematografico originario, ombre sullo schermo, fissità dell’immagine, pochissimi movimenti di macchina, (non era così il cinema delle origini?), lontano forse il fischio di un treno, o magari si è già dentro questo treno e la 603 non è altro che uno dei suoi scompartimenti, così che l’immobilità si rivela essere viaggio nel nero del cosmo.