Il golfo del leone

Un dramma sbilanciato fra due filoni narrativi: l’uno raccontato con maggior partecipazione e dunque più convincente; l’altro invece più freddamente, tanto da suonare insicero e in fondo non necessario.

Come l’Emma Bovary flaubertiana, la giovane borghese Suzanne s’annoia e la sua curiosità e i suoi desideri la spingono lontana dagli obblighi quotidiani, come ripassare per la maturità e seguire il cammino per lei tracciato dalla famiglia. Affascinata dai coetanei di più bassa estrazione sociale che si tuffano in acqua da un’autostrada a strapiombo sul mare (la corniche, ovvero il cornicione eponimo), dalla loro incoscienza e temerarietà, s’avventura fuori dalla villa dove trascorre l’estate e ne diviene presto amica. La nuova compagnia viene però tenuta d’occhio dalla poliziotta Awa, la quale nutre fondati sospetti che i sorvegliati siano coinvolti in un traffico di droga.

Due sono gli assi su cui è impostata l’opera: da un lato, la scoperta di un mondo altro e lontano dal proprio da parte della protagonista; dall’altro, l’intrigo poliziesco innescato quando entra in gioco il personaggio dell’agente di polizia e si scoprono i rapporti degli amici di Suzanne con una banda di spacciatori. L’interesse della regista è tutto nel ritrarre i giovani protagonisti nel contesto della luce meridiana, dell’architettura mediterranea, dell’ambiente brulicante di confusione, di suoni e di colori della città focese. È la storia d’una scoperta, dunque, quella di Suzanne che, varcando i confini della sua villa isolata, conosce un mondo nuovo, più vitale ed intenso, più carico di sentimenti e d’emozioni, di quello borghese di provenienza. S’instaura così una sorta di ménage à trois fra Suzanne, Mehdi e Marco, con un’evidente eco di Jules e Jim (il romanzo di Henri-Pierre Roché e il film di Truffaut), che saran certo stati presenti alla memoria della De Kerangal e della Cabrera. Per raccontarne la storia, la regista sceglie una fotografia dalle tonalità calde e luminose, che inserisce i personaggi in un ambiente urbano e naturale (sia esso composto dalle strade e dai vicoli di Marsiglia o dalle spiagge) accogliente e partecipe, dove abbandonarsi e dal quale lasciarsi conquistare. La città, lungi dal costituire un mero palcoscenico delle azioni della vicenda, diviene un autentico personaggio, al pari di quelli in carne ed ossa, tanto da costituire un elemento essenziale ed imprescindibile del film, che non sarebbe potuto esser ambientato altrove. La stagione  e la città dove l’opera si svolge rivestono quindi un’importanza decisiva e la fotografia s’incarica di renderlo evidente e manifesto allo spettatore, invitato a calarsi, insieme ai personaggi, in un ambiente colmo di sensazioni e di umori, terreno ideale per il sorgergere di passioni e di slanci vitali, complice anche la giovane età dei protagonisti. La regista sembra talvolta lasciarsi prender la mano e mostrarsi eccessivamente indulgente e partecipe verso i personaggi e il luogo dove la loro vicenda si svolge; ma in fondo è uno segno della sincerità e dell’autenticità del suo sguardo. Lo stesso non può tuttavia dirsi del secondo filone narrativo che informa l’opera, quello appunto poliziesco. Marsiglia, si sa, è anche stata la capitale dei traffici illegali nel Mediterraneo (come racconta, fra gli altri, Il clan dei marsigliesi [La scoumoune], 1972, di José Giovanni) e poteva quindi sembrare opportuno ambientarvi una trama che vede i personaggi coinvolti nel traffico di stupefacenti e una materna e comprensiva poliziotta tentare in ogni modo di redimerli e d’aiutarli; una scoperta della vita in tutti i suoi aspetti, da quelli più piacevoli e delicati a quelli invece pericolosi e potenzialmente letali, che spezzano l’idiliio fra i protagonisti. Peccato che questo secondo asse narrativo risulti ben più freddo e posticcio del primo, privo di quella partecipazione e di quel calore che la regista aveva in precedenza mostrati. La Cabrera non pare infatti per nulla interessata a raccontare gli intrighi della malavita marsigliese, se non di riflesso per  rivelarne la minaccia che costituisce per i suoi personaggi. Non si trova alcuna tensione narrativa, alcun ritmo nella succesione delle inquadrature, alcun coinvolgimento dello spettatore quando entrano in campo i trafficanti e i poliziotti e cominciano gli inseguimenti per le vie della Marsiglia notturna. L’attenzione della regista si concentra unicamente nel racconto del legame fra i personaggi e la città che li ospita e quando la trama segue un tracciato diverso e poco conseguente con la prima parte dell’opera, il suo interesse, insieme a quello dello spettatore, scema rapidamente e il film non sa più avvincere né interessare. Il tutto suona dunque come un’opera priva d’un solido equilibrio, con una seconda parte incerta ed irrisolta, corpo estraneo rispetto all’insieme, di cui si sarebbe potuto far a meno.

Titolo originale: Corniche Kennedy
Regia: Dominique Cabrera
Soggetto: dal romanzo di Maylis De Kerangal
Sceneggiatura: Dominique Cabrera, con la collaborazione Philippe Géoni e Pierre Linhart
Fotografia: Isabelle Razavet
Montaggio: Sophie Brunet
Interpreti: Lola Créton, Aïssa Maïga, Alain Demaria, Kamel Kadri, Moussa Maaskri, Linda Lassoued, Agnès Regolo, Cyril Brunet, Miguel Furtado, Franck Cavanna, Julie Lavocat, Mélissa Guilbert
Prodotto da Gaëlle Bayssière
Genere: drammatico, poliziesco
Durata: 94′
Origine: Francia
Anno: 2016