Ritratti d’Autore

Carlo Rinaldi (Roma, 1981) è un direttore della fotografia italiano. Diplomatosi al Centro Sperimentale di Cinematografia sotto l’insegnamento del maestro Peppino Rotunno, si trasferisce in America dove si fa strada come cinematographers, arrivando a fotografare la serie tv teen Guidance e gli horror Il massacro di Amityville e Sharon Tate – Tra incubo e realtà. Nel 2020 esordisce anche nel cinema italiano, girando nel giro di pochi mesi Abbi Fede di Giorgio Pasotti, I predatori di Pietro Castellitto, premiato al Festival di Venezia per la sceneggiatura, e Cosa sarà di Francesco Bruni, con Kim Rossi Stuart.

Qual è stata la sua formazione e il suo percorso prima di esordire come direttore della fotografia?
Carlo Rinaldi: «Io provengo da studi scientifici, ho frequentato un liceo scientifico e ho fatto la facoltà matematica con tesi in informatica. Durante gli anni dell’università però avevo da sempre sentito il bisogno di fare qualcosa di più creativo, di fuggire dall’astrazione dei numeri, ed è stata colpa e merito di mio padre, che è un architetto, se ho preso in mano la macchina fotografica. Ho iniziato a fotografare, prima per passione, poi per hobby, poi come piccolo lavoro, ma la passione mi ha travolto e ho iniziato a fare il fotografo professionista. Dopo di che, di nuovo un po’ per caso – io ero un grande amante del cinema ma da spettatore – sono venuto a conoscenza del concorso per entrare nella classe di fotografia del Centro Sperimentale di Cinematografia. Io non sapevo nulla di questa grande istituzione, non conoscevo neanche Peppino Rotunno per dire, e con inconsapevolezza e una buona dose di incoscienza ho fatto il test di ingresso, ho superato le prove.
Nell’ultima fase, il maestro Rotunno evidentemente ha visto qualcosa che io non mi ero reso conto di avere, dandomi la possibilità di entrare. Avevo 24 anni, mi ero appena laureato e mi sono immerso nei tre anni di corso di cinematografia e questo percorso mi ha dato la possibilità di ricevere una formazione più cinematografica, partendo da buona base di fotografia.
Ho frequentato il Centro quando ancora si lavorava su pellicola e le macchine da presa digitali sostanzialmente non esistevano e dopo essermi diplomato ho fatto un’altra scelta istintiva e senza tentare troppo a lungo la strada italiana sono andato a vivere negli Stati Uniti, a Los Angeles, dove non conoscevo quasi nessuno nel mondo del cinema. Con grande fatica ho continuato anche a fare da fotografo e fotoreporter, lavorando per qualche anno per il Los Angeles Times, e pian piano sono riuscito a farmi strada nel mondo del cinema girando il mio esordio narrativo negli States. A un certo punto davo quasi per scontato che la mia vita sarebbe proseguita in America, poi inaspettatamente ma con certa gioia mi sono arrivate delle offerte per dei film in Italia e sono tornato. Il primo lungometraggio che ho girato in Italia come direttore della fotografia, l’opera seconda da regista di Giorgio Pasotti, Abbi Fede, remake del film scandinavo Le mele di Adamo; poi subito dopo mi è arrivata la sceneggiatura de I predatori di Pietro Castellitto. In seguito ho fotografato anche Cosa Sarà di Francesco Bruni».

La sceneggiatura de I predatori, opera prima da regista dell’attore Pietro Castellitto, è stata premiata nella Sezione Orizzonti di Venezia. Come ha conosciuto Castellitto Jr. e quali impressioni ha tratto dalla lettura della sceneggiatura de I predatori? Come si sono svolti poi i vostri primi incontri?
CR: «Ho letto la sceneggiatura de I predatori a Los Angeles e me ne sono immediatamente innamorato, completamente catturato dai personaggi, dai dialoghi e dalle battute. Quel film lo dovevo fare assolutamente e ne sono stato talmente entusiasta da abbandonare alcune offerte negli USA per dedicarmi a Pietro e al suo film. Il primo incontro con Pietro è stato inevitabilmente via Skype: io a Los Angeles, lui a Roma. Sicuramente mi ha colpito la sua intelligenza, la sua preparazione, pur essendo un po’ più giovane di me, il suo acume e la sua brillantezza: Pietro ha una cultura enorme, è laureato in Filosofia e sicuramente ha molto da dire. Abbiamo iniziato a parlare molto presto rispetto all’inizio effettivo riprese, e questa è stata una fortuna, perché una preparazione così lunga ci ha permesso di costruire un percorso insieme. I predatori era comunque la sua opera prima, aveva girato pochissimo prima di esordire e quindi per lui la componente visiva era ancora una tavola bianca; siamo riusciti mettere organicamente insieme i pezzi parlando assieme dei personaggi, poi di fotografia, di cinema e guardando altri film».

Come si è svolta la preparazione de I predatori? Quali reference visive ha condiviso con Castellitto? Avete impostato una LUT?
CR: «Pietro mi ha mostrato foto di reportage, soprattutto sul mondo dei fascisti. Ne ricordo in particolare uno molto bello di Paolo Marchetti sui gruppi di estrema destra in Italia. Iniziando a mescolare queste suggestioni – un po’ di foto, un po’ di film, un po’ di discorsi sui personaggi – abbiamo iniziato a tirare su l’ossatura di questo film da zero. Questo percorso di preparazione mi ha reso felice perché nonostante sia il modo migliore per affrontare un progetto, non è sempre accade, certe volte hai il tempo di costruire visivamente un film con grande cura, certe altre un po’ meno. Quella de I predatori è stata una genesi felice di cui sono fiero. Non siamo però andati troppo sul tecnico, a parte la scelta delle lenti, quindi non abbiamo abbiamo impostato una LUT. Sostanzialmente, abbiamo parlato dello stile con delle parole chiave: “realistico”– “asciutto” – “cinico” – “in parte surreale”. Veramente delle parole che poi in qualche maniera andavano tradotte in immagini. Una volta giù questo lessico, ho cercato di capire quali potevano essere anche dei film a cui ispirarci e Pietro, che ha una cultura cinematografica molto vasta, ha iniziato a tirare fuori alcune opere di Lanthimos, The Square di Östlund, che aveva vinto la Palma d’Oro a Cannes, alcuni film indipendenti americani come The Florida Project».

Come si sono svolti poi i sopralluoghi per il film?
CR: «Su Skype c’è stato fondamentalmente l’inizio della costruzione dell’impianto visivo, poi successivamente Pietro e io ci siamo incontrati di persona e c’è stata la seconda fase, quella dei sopralluoghi per scegliere le location in cui ci siamo finalmente conosciuti personalmente e umanamente. Io mi porto sempre dietro una macchina fotografica e quando ho tempo a voltein pellicola: con Pietro quindi abbiamo scattato tantissime foto in pellicola nelle location dove volevamo girare e alcune di queste foto hanno poi dato lo spunto per alcune inquadrature e atmosfere che ci sono nel film. La preparazione de I predatori è stata un percorso lungo, nato con una pazienza e un amore che – spero – si veda nel film. Mettendo insieme tutti questi elementi abbiamo iniziato a parlare in realtà dei due mondi che compongono questo film, il mondo dei fascisti e il mondo dei borghesi: non abbiamo però detto “i fascisti sono neri e i borghesi sono gialli”, ma più che altro di come far convivere queste due atmosfere diverse ma amalgamate all’interno dello stessa pellicola. Secondo me quello che connota un film, più che la LUT o la colorazione, è il “vetro” con cui lo giri: la scelta degli obiettivi è, dal mio punto di vista, la cosa fondamentale, poi viene la scelta della macchina da presa, anche se, francamente, in questo momento storico la tecnologia ha fatto dei passi avanti tali che i vari modelli quasi si equivalgono; al contrario per quanto riguarda gli obiettivi è come scegliere diversi pennelli, che tracciano segni completamente differenti l’uno dall’altro».

Con quale set di lenti allora ha girato I predatori e con quale macchina da presa?
CR: «Come macchina da presa abbiamo girato con un’Arri Alexa Mini. Pietro e io abbiamo deciso di girare la parte dei fascisti con delle TechnoVision anamorfiche, mentre la parte dei borghesi con Leica Summicron: appunto, così come i personaggi sono agli antipodi, abbiamo fatto lo stesso anche da un punto di vista del vetro delle lenti, da un anamorfico vintage a uno sferico contemporaneo. È stata una scelta molto radicale per differenziare questi due mondi opposti, ma la grande sfida che io proposto e che lui pienamente abbracciato è stata quella di prendere due look così diversi e cercare di riportarli insieme nello stesso racconto, trattando ovviamente questi tipi di obiettivi, già sul set, in maniera diametralmente opposta: le anamorfiche cercando di renderle leggermente più incise e le sferiche cercando praticamente di distruggerle, di sporcarle il più possibile. Le TechnoVision le ho trattate girando con i diaframmi più chiusi per recuperare un po’ di nitidezza e aggiungendone un filo anche durante il processo di colorazione in digitale. Le Leica invece le ho maltrattate girando con diaframmi molto aperti, mettendoci davanti un filtro di diffusione e letteralmente deformandole, tirandole, “sporcandole” durante la color in digitale. In post-produzione ci siamo divertiti sfidandoci a vedere quanto si riusciva a capire quali parti del film erano state girate con lenti sferiche e quali con lenti anamorfiche. Penso che abbiamo trovato una bella quadra».

Una delle scene più importanti de I predatori è ambientata in un ristorante dove la famiglia Pavone va a festeggiare i novant’anni della nonna. La scena si caratterizza per una illuminazione ben centrata sui personaggi, che risaltano su un fondale piuttosto oscuro. Come ha illuminato l’ambiente e stabilito questo equilibrio cromatico? Come avete realizzato la pittoresca «soggettiva del dito medio» a cui allude anche la locandina del film?
CR: «Quella è una scena importantissima e fondamentale nella narrazione della famiglia borghese e come a volte succede è anche molto lunga: se non sbaglio otto minuti, otto pagine di dialogo serrato fra i membri della famiglia a cui poi segue il pezzo cantato della figlia e le reazioni degli invitati a tavola. Era una scena complessa e lunga, ma nel piano di lavorazione di un’opera prima dovevamo andare abbastanza veloci e avevamo a disposizione un solo giorno per portarla a casa: è stata un po’ una sfida, anche se abbiamo girato ovviamente con due macchine. A quel punto della lavorazione però devo dire che Pietro aveva già affinato la tecnica con cui affrontare il film e, se le parole chiave erano “asciutto” e anche “cinico”, lui si è mosso in maniera asciutta e cinica con la macchina da presa: quel giorno abbiamo girato pochissime inquadrature molto ben definite, molti primi piani senza quinta, dei campi a due fissi, ed un solo totale, il che ci ha permesso di svincolare un po’ le azioni dei personaggi. L’idea era di mostrare questa famiglia attorno a una grande tavolata, ma isolata dal resto del mondo, e le comparse volutamente le ho tenute nella penombra, nella semioscurità. Tutto era illuminato dall’alto, ricreando una top-light appesa al soffitto a forma di rombo che seguiva il perimetro del tavolo, anche perché dovevamo stare con due macchine e dovevamo avere la libertà a inquadrare a 360 gradi senza avere ingombri sul set. Oltre a questa illuminazione dall’alto c’erano anche delle luci dall’esterno delle vetrine, quel ristorante aveva una grandissima vetrata che si affacciava sulla strada e che veniva a illuminare le comparse dietro i personaggi. Questa scena è un esempio perfetto di come un “limite”, in questo caso il limite di tempo, è diventato un vantaggio: siamo rimasti sull’essenziale, andando a stringere sui pezzi che servivano. Il vezzo ma anche la parte più geniale è stata l’inquadratura in soggettiva delle dita delle mani della ragazza – che poi è Maria Castellitto, sorella di Pietro – che si chiudono a fare il medio. L’abbiamo girata come potete immaginare, cioè l’attrice ha “abbracciato” la macchina da presa e ha messo le mani davanti all’obiettivo, ripetendo alcune volte la panoramica fino a che non è venuta perfetta. Sono cose un po’ complesse da fare che richiedono tempo, non è facile trovare l’angolazione giusta e coordinare il movimento fra la macchina e l’attrice, e questa in realtà è la classica inquadratura che magari alla fine non giri perché apparentemente “non serve”: invece Pietro era convinto che fosse totalmente necessaria ed effettivamente è l’inquadratura iconica di quella scena».

Un’altra scena chiave del film è ambientata poco prima del tramonto all’esterno della villa della famiglia Pavone, con il personaggio di Massimo Popolizio che cade volontariamente in piscina in un tuffo alla Hockney. Come avete girato quella scena? Come ha mantenuto la continuità fotografica fra i totali e i primi piani, con il sole che sta per tramontare alle spalle dei personaggi?
CR: «Quel tipo di luce, soprattutto in estate, dura molto poco. Sostanzialmente abbiamo puntato ad avere veramente il sole al limite dell’orizzonte solo in alcuni momenti chiave e soprattutto nel dialogo concitato fra il dottor Pavone, il suo collega e la sua amante. Invece i larghi e il tuffo li abbiamo girati in un altro momento, tenendo accesi un paio di proiettori a scarica gelatinati “full orange”. In queste inquadrature, che abbiamo girato prima nel pomeriggio, io prevedevo l’effetto visivo del tramonto, andando a illuminare come se fosse già quasi calata la sera quando il sole invece era un po’ più alto. Si trattava, in quel caso, di caricare molto i proiettori di arancione e gelatinarli, mentre pian piano il sole se ne andava e ho ritrovato l’effetto di luce che avevo inizialmente creato artificialmente. A quel punto i proiettori sono stati spenti per quel breve momento in cui abbiamo potuto godere della vera golden hour inquadrando anche il sole che tramontava e alla fine, per gli ultimi primi piani sulle protagoniste femminili, ho dovuto riaccendere i proiettori perché il sole se n’era andato. Ma sugli stretti in quegli attimi puoi ricreare facilmente l’effetto di un tramonto. In sintesi per i larghi sulla casa abbiamo dovuto un po’ “prevedere” il tramonto, nei controcampi abbiamo dovuto aspettare il momento giusto con il sole all’orizzonte e abbiamo dovuto poi ricreare quello stesso effetto sui primi piani quando ormai il sole era tramontato. Ovviamente tutto questo lo abbiamo amalgamato e mixato meglio in fase di color, ma con intervento di luce abbastanza importante già sul set con i proiettori a scarica».

Castellitto in diverse scene del film è anche attore nel ruolo di Federico Pavone, giovane assistente universitario di filosofia ossessionato da Nietzsche. Come si è rapportato con lui, in quanto direttore della fotografia, per permettergli di avere il controllo registico sulle scene in cui doveva anche recitare?
CR: «Abbiamo girato I predatori in due blocchi, iniziando dalla parte dei fascisti, dove Pietro sostanzialmente non era mai in scena, quindi per la prima metà del film lui si è concentrato principalmente sulla regia. Nel momento in cui è entrato in scena noi avevamo già girato quasi metà film e lui, con una maturità incredibile, ha saputo alternare il suo ruolo di attore – peraltro dando una performance secondo me straordinaria – e il suo ruolo di regista “ormai” navigato: dopo tre settimane sembrava lo facesse da tutta la vita. Forse è nel suo DNA come alcuni dicono, tuttavia è incredibile come sia riuscito a non farci pesare il suo doppio ruolo, anche perché anche noi a quel punto eravamo una troupe rodata e abbiamo potuto supportarlo in questo doppio sforzo, ma lui aveva le idee molto chiare da sé. La cosa interessante è che anche per il precedente film fatto in Italia, Abbi Fede, avevo Giorgio Pasotti sia come attore che come regista e in quel caso era Giorgio era il protagonista assoluto presente praticamente in tutte le scene: quindi già ero un po’ abituato alle dinamiche che si creano in questi casi. Una situazione così un po’ ti carica di responsabilità, quando poi si dà lo stop il regista che è anche attore guarda te, l’aiuto regia e la segretaria di edizione, o le persone dietro il monitor di cui ha più fiducia, e quindi senti un fardello un po’ più grande del solito, perché sei tu a dovergli fare sì o no con la testa per fargli intuire se è buona o non è buona. Pietro però è stato lucidissimo e bravissimo anche in questo, noi spesso gli portavamo un monitor, così che riusciva a vedersi rimanendo nella sua posizione, ma a quel punto il meccanismo era consolidato. Ormai, dato che si era discusso molto in preparazione, eravamo arrivati sul set sapendo già cosa dovevamo fare. Per esempio è molto bella l’inquadratura in cui Pietro, in silhouette, indossa un vecchio elmetto militare prima di partire per la Germania: quella fotografia l’avevo già scattata nei sopralluoghi, approfittando della bella vetrata che c’era in quell’ambiente, ed è diventata un’inquadratura che tutti sapevamo avremmo dovuto replicare nel film: quindi I predatori era abbastanza definito anche come piano delle inquadrature».

Come si è svolta la post-produzione del film?
CR: «La finalizzazione è stata importante, sia per il discorso fatto con le lenti e con questa sfida di unire questi due mondi, sia perché l’altra caratteristica fotografica che Pietro voleva ottenere, alla quale lui teneva tanto, era di dare una sensazione di fumosità, accentuando la componente surreale che non fosse però artificiale, un’atmosfera un po’ sospesa e sfumata, data anche in parte dal caldo fisico dei personaggi. Del resto avevamo girato in un’estate torrida in cui sfioravamo i 40 gradi. In post-produzione abbiamo simulato il processo che un tempo si chiamava la “flashatura del negativo”, giocando molto sui bassi contrasti e sui toni delle alte luci: non è un caso che I predatori sia molto sbilanciato verso il chiaro e molto fumoso, questo è dovuto sia alle lenti sia ai filtri che abbiamo usato, con un’impostazione che addirittura si è accentuata in fase di color. Pietro è un regista che se crede in un’idea la porta all’estremo e questa è stata un’idea per me molto interessante e affascinante ma anche molto rischiosa: io non avevo mai fatto, banalmente, un film così chiaro, ero abituato a lavori più contrastati, più “neri”, invece Pietro mi ha stimolato ad andare nella direzione opposta, a portare i bianchi al limite dell’esplosione. Lui mi ha proiettato in mondo quasi disorientante durante la color correction, poi ho capito che era la direzione più giusta e che andava in linea con i personaggi e con quella particolare atmosfera che si respira nel film, quindi ci siamo buttati e siamo andati dritti in quella direzione. Oltre a questo devo dire che non ci sono stati interventi di color massicci, il film è uscito molto pulito a livello di continuità fotografica anche grazie all’impegno del mio DIT Manuel Mastrostefano. Il girato de I predatori era, come si dice in gergo, già ben “steso”, quindi in color ci siamo potuti concentrare sugli aspetti creativi delle “alte luci”. È stato un lavoro complesso ma molto bello».

Cosa ricorda della presentazione a Venezia del film e dell’assegnazione del premio alla sceneggiatura a Castellitto?
CR: «Il giorno prima sono arrivato a Venezia per la proiezione di controllo con grandi aspettative e anche un certo timore nel vedere il film su uno schermo così grande. Invece quando sono partite le prime immagini, ho capito che l’idea era vincente, e la magia della Sala Darsena con quello schermo enorme ha dato una potenza incredibile alla fotografia così chiara e luminosa. Già dalla proiezione di controllo ero molto emozionato, poi la proiezione vera e propria è stata bellissima, mi sono divertito a vedere per la prima volta il film con il pubblico – in questo siamo stati fortunatissimi, Venezia è stato uno dei pochi festival con pubblico l’anno scorso – e ho potuto godermi un lunghissimo applauso sulla scena del rap al ristorante e su diversi altri momenti. Venezia è stata una grandissima emozione e il premio a Pietro per la sceneggiatura è stato una soddisfazione enorme per tutti noi. D’altronde io a pagina 2 della sceneggiatura la prima volta che l’ho letta ero già rapito dal suo stile di scrittura: il premio era meritatissimo, per quanto Pietro ha dimostrato di essere anche un grande regista. C’è anche tanta “regia”, oltre che “scrittura” in questo film».