Nella scorsa edizione del Festival Quentin Tarantino era impegnato in un agguerrito braccio di ferro con Bellocchio, sostenendo che ormai il cinema Italiano ha vita breve e risulta praticamente indifendibile, ma è arrivata ben presto la smentita con questa sessantunesima Kermesse e  il prode Quentin avrà ben modo di ricredersi su quanto ha dichiarato.


Con questo non vogliamo  gridare al miracolo ( sarebbe decisamente prematuro), però bisogna  con onestà riconoscere gli sforzi compiuti dal nostro cinema, il quale dopo aver arrancato  per due decenni (80/ 90) tra la monnezza catodica della prima  e della seconda era del Biscione è riuscito agli albori del duemila a muovere qualche primo passo verso una nuova ed esperibile produzione cinematografica ed ora cominciamo a goderne i primi frutti.

Su “Gomorra” di Matteo Garrone è praticamente già stato scritto e detto tutto, ma ci sembra comunque opportuno spendere due parole in merito, principalmente perchè è uno di quei film che hanno contribuito notevolmente alla “ri”crescita del filone cosiddetto “civile”, che negli anni settanta grazie ai i vari: Rosi, Petri, Montaldo era il pane quotidiano dello spettatore attento e ben informato, ma anche per la sua capacità di superare gli argini puramente ficionali, mostrando il volto di un’operazione antropologica nuda e cruda.
Anche sulla grottesca parabola andreottiana di Sorrentino si è discusso abbondantemente ed è inutile dire che in questo caso siamo ben lontani dall’impegno civile, Sorrentino ha seguito principalmente gli influssi surrealisti di Bunuel e i barocchismi coppoliani per raccontare i sordidi anni della D.C.

Il Divo” è L’altra faccia di “Gomorra“, il Ground Zero della nuova cinematografia italica.

Meno considerato invece “Sanguepazzo” di Giordana, un incrocio molto ben riuscito tra il classico prodotto RAI  Fiction e il kolossal alla Tornatore, esteticamente elegante ma non leccato con la dimensione politica una volta tanto messa in secondo piano.
Nella sezione “Escrans Junior”, troviamo l’opera prima di Attilio Azzola: “Diari“.

Fin troppo coccolata, è una discreta operina corale tra ingenuità di scrittura e forti ambizioni stilistiche, dall’intimismo un pò blando ma superiore all’odierno filone giovanilistico che imperversa e non da tregua.
Conclusa l’inevitabile riflessione sulle svariate problematiche del nostro cinema, possiamo dire che è stato complessivamente un festival più che dignitoso, con opere spesso interessanti, talvolta medie ma anche sublimi come l’ultimo Skolimowski (“Four Nights with Anna“), impercettibilmente ironico e superbamente raggelante, o come lo splendido melodramma gotico di Garrel ( “La Frontiere de l’Aube“), ma  un occhio di riguardo va sicuramente alla cinematografia sudamericana di cui ci sembra doveroso segnalare il liquido e limpidissimo “Liverpool” di Lisandro Alonso.

Degna di nota anche la ghiotta rassegna dedicata ai quarant’anni della “Quinzaine”, con una nutrita selezione di pellicole misconosciute che portano la firma di noti e prestigiosi nomi del cinema internazionale: da Todd Haynes a Kitano, da Fassbinder a Sean Penn.

Qualche delusione con “Waltz with Bashir“, l’apocalittica animazione dell’israeliano Ari Forman che presenta un’ eccessiva dissonanza tra l’estetica fosca e traslucida (quasi alla GTA) e una diegesi fluviale, si pensava ad un’altra rivelazione dopo “Persepolis“, mentre non si va oltre al puro sperimentalismo linguistico e formale.

Per il resto è stato possibile riscontrare delle buone conferme riguardanti i più assidui frequentatori del festival: Kusturica con la sua euforica sacralizzazione maradoniana e i Dardenne con un nuovo e dignitoso capitolo appartenente alla loro ormai inconfondibile poetica bressoniana, indubbiamente positivo anche l’apporto della nuova cinematografia romena, dopo il trionfo dell’anno passato con “4 mesi, 3 settimane e 2 giorni” di Cristian Mungiu, abbiamo “Boogie” di Radu Muntean, un film che affronta tematiche abbastanza scontate ma in maniera asciutta ed essenziale.

A questo punto ci sembra opportuno concludere con i padroni di casa, obbiettivamente la Francia è stata la meno influente ed incisiva,  regalando davvero pochisime sorprese, eccetto la straordinaria e già citata opera di Garrel e il solido racconto polifonico di Desplechin (“Un Conte de Noel”), eppure ironia della sorte è riuscita ad aggiudicarsi la Palma d’oro con “Entre les Murs” di Cantet, a nostro avviso il peggior film in gara: banalmente didattico, prolisso e artificiosamente reazionario.

Va bene che il cinema francese era in astinenza da Palma d’oro da circa 21 anni, ma portarlo in trionfo proprio con l’opera più oleografica e accademica dell’intera selezione, ci sembra davvero un affronto alla ricchezza di acume che ha sempre contraddistinto il Festival della Croisette.