Affinità elettive

Come testimoniato dal memoir Lanterna magica e dal libro-intervista con Olivier Assayas e Stig Björkman, lungo tutta la sua carriera cinematografica e teatrale Ingmar Bergman ha continuato a studiare l’opera di August Strindberg.

Ingmar Bergman non ha bisogno di presentazioni: nato nel 1918 e morto il 30 luglio 2007, è unanimemente considerato tra i massimi registi della storia del cinema, benché altrettanto importante sia stato, nel corso della sua vita creativo, il palcoscenico teatrale, con l’allestimento di decine di spettacoli in giro per tutta l’Europa. Suoi titoli come Monica e il desiderio, Il settimo sigillo, la glaciale Trilogia del silenzio di Dio o Persona sono annoverati tra i massimi capolavori della storia del cinema, non meno dei successivi Sussurri e grida, Sinfonia d’autunno o Fanny & Alexander, l’ultimo film di Bergman concepito espressamente per il cinema. In tempi non sospetti, Scene da un matrimonio sperimentò formule inedite di ibridazione tra cinema e serialità e per gli ultimi tre decenni della sua carriera Bergman continuò la sua produzione audiovisiva con titoli come Dopo la prova o Sarabanda, concepiti espressamente per il medium audiovisivo.

Uno degli aforismi più puntuali di Cioran afferma che il genio cancella sempre le sue tracce, le sue fonti. Questo principio non vale per Bergman, o lo vale in maniera molto relativa. A differenza di altri registi altrettanto grandi come Kubrick, buona parte dei film di Bergman erano soggetti originali, storie di invenzione dello stesso regista trasposte sul grande schermo con uno stile unico e inconfondibile, sospeso tra una forte simbolizzazione delle vicende e un autobiografismo non meno forte – anche e soprattutto quando, dichiaratamente, Bergman trasponeva la sua complessa personalità nei caratteri di due diverse donne, la geniale intuizione creativa che diede vita a Persona. Eppure, basta scorrere rapidamente il suo ricchissimo opus teatrale per comprendere uno dei maggiori ispiratori della sua poetica: sin dai primissimi anni della sua carriera teatrale, fino alle ultime messe in scena su un palco, Bergman ha continuato ad adattare drammi e pièce di Strindberg. Per la precisione, in una singolare struttura ad anello, la prima prova di Bergman su un testo di Strindberg risale al 1940, con una messa in scena de Il pellicano, e l’ultima al 2003, con una radiodramma che adattava sia Il pellicano sia l’Isola della morte, la leggendaria opera incompiuta di Strindberg ispiratagli dall’omonimo dipinto di Böcklin.

Il drammaturgo Augustus Strindberg, nato nel 1849 e morto nel 1912, è unanimemente annoverato tra i massimi scrittori della letteratura scandinava. Oltre alle due già citate, fra le sue più celebri opere teatrali si annoverano anche Maestro Olof, La signorina Julie, Verso Damasco, Danza di Morte e La sonata degli spettri. Una coincidenza singolare vuole peraltro che tanto Friedrich Nietzsche quanto Franz Kafka, negli ultimi mesi della loro vita cosciente, si fossero immersi nell’opus strindberghiano e che, almeno nel caso di Nietzsche, avessero anche avviato un epistolario con il drammaturgo svedese. Lo stesso Strindberg non fu indenne dai colpi della “pazzia” e di una catabasi personale in mezzo ai propri demoni, come ben dimostra il suo romanzo autobiografico Inferno – il che spiega bene come mai Bergman, sempre così attento all’introspezione e alle fantasmagorie, fosse tanto affezionato all’opera del drammaturgo suo connazionale. Fatto pure significativo, Bergman non ha mai adattato per il cinema nessuno dei drammi di Strindberg, laddove non ha avuto problemi a operare un cambio anche radicale di medium con Le Baccanti di Euripide, adattate per la televisione nel 1992, o anche con Il Flauto Magico di Mozart, da cui trasse uno dei suoi film di maggior successo al momento dell’uscita. Giusto un paio di drammi di Strindberg – Tempesta e Gioco da sogno – furono da lui adattati per il piccolo schermo nei primi anni sessanta, all’inizio della carriera televisiva di Strindberg.

«Avevo dodici anni quando ho avuto il primo contatto con Strindberg. Non voglio fare dei paragoni, ma Strindberg era il mio Dio, e la sua vitalità, la sua rabbia, io le sentivo dentro di me». Così confidò Bergman nei primi anni novanta, durante una delle conversazioni con il grande cineasta svedese che Stig Björkman e Olivier Assayas raccolsero per un libro-intervista semplicemente intitolato Conversazione con Ingmar Bergman, ed edito in Italia da Lindau. Björkman ha alternato per tutta la sua carriera il percorso da cineasta con quello di critico, Assayas aveva da poco dimesso i suoi panni di critico dei Cahiers per intraprendere la strada della regia, avendo, ai tempi dell’intervista con Bergman, diretto i suoi primi due film: i due senza dubbio erano degli interlocutori privilegiati, anche agli occhi di Bergman, notoriamente schivo e poco propenso alle interviste. Poche pagine dopo, su istigazione di Assayas, Bergman arriva anche a indicare le sue pièce preferite di Strindberg: Sonata di fantasmi, Il sogno, Verso Damasco, Il Padre. E non per nulla quando, emigrato momentaneamente in Germania dopo che un grottesco equivoco fiscale lo aveva spinto ad autoesiliarsi dalla nativa Svezia, Bergman sempre a una pièce di Strindberg si era rivolto: Il sogno, allestita al Residenztheater di Monaco poco dopo le riprese dello sfortunato L’uovo del serpente prodotto da De Laurentiis. Sulla realizzazione di quella messa in scena però Bergman rimaneva autocritico: le sue difficoltà con la lingua tedesca, almeno secondo la sua percezione, gli impedirono di comunicare a dovere con gli attori, una problematica resa ancora più complessa dal fatto che Il sogno di Strindberg prevedeva ben quattrodici diversi personaggi in scena.

Quella tra Strindberg e Bergman è una relazione tra affinità elettive che, da sole, riescono a spiegare alcune linee di fondo di un’intera cultura, in questo caso la cultura nordica, protestante. In certi interni famigliari, prima ancora che borghesi, in certi ambienti claustrofobici, ma innanzitutto sul piano psichico, si ritrova tutto un concetto patriarcale del vivere in comune, particolarmente sentito nel cuore della famiglia Bergman dal momento che il pater familias era un pastore protestante, indiretto ispiratore del sofferto protagonista di Luci di inverno. Bergman stesso, così come Strindberg, ebbe una forte crisi psichica al seguito del già ricordato scandalo finanziario sollevato dalle autorità svedesi e continuamente nel corso della sua filmografia riemergono figure di “folli”, di personalità che adesso definiremmo borderline, di suicidi o di aspiranti tali. Del resto, una delle drammaturgie più note di Strindberg si intitola Danza di morte, o Danza macabra a dir si voglia: il testo di Strindberg è la rappresentazione cupa e pessimistica del matrimonio tra due infelici, ma non si ritrova la più efficace stilizzazione del titolo nella celebre inquadratura finale de Il settimo sigillo, una danza della morte anch’essa? Un comune retaggio medioevale si avverte in sottofondo tanto nell’opera di Strindberg, quanto nel film di Bergman, non per nulla ambientato al tempo della peste – il memento mori dell’era cristiana risuona con amplificata efficacia, dopo la supposta “morte di Dio” proclamata a fine Ottocento da Nietzsche e condivisa, come scenario, tanto da Bergman quanto da Strindberg.

Peraltro, come Bergman avrebbe ricordato sia nel suo memoir Lanterna magica sia nella conversazione con Assayas e Björkman, di Strindberg era anche il primo spettacolo teatrale che, da ragazzino, aveva visto, anzi spiato tra le quinte di un teatro: «A dodici anni ebbi l’occasione di accompagnare un musicista che suonava la celesta dietro le quinte nel Sogno di Strindberg. Fu un’esperienza esaltante. Sera dopo sera assistetti, nascosto nella torre del proscenio, al matrimonio tra l’Avvocato e la Figlia. Era la prima volta che sperimentavo la magia del teatro. L’Avvocato teneva una forcina per capelli tra il pollice e l’indice. La torceva, la raddrizzava e la faceva a pezzi. Non c’era nessuna forcina, ma io la vedevo!»

Nulla è più vero del sogno, è questa la comune conclusione a cui pervengono, simmetricamente, Strindberg e Bergman. Entrambi sono eredi e modelli: punto di arrivo di una lunga e molteplice tradizione – un cristianesimo ripudiato, eppure costantemente destinato a risorgere a mo’ di fantasma, un nietzschianesimo sofferto, profondo, cupo, quel che di Shakespeare e di Calderón de la Barca si può trattenere, senza che sfiguri – e al tempo stesso autori influentissimi su molti e differenti aspetti dell’arte contemporanea, soprattutto nel caso di Bergman. In questo loro comune e contemporaneo status di eredi e di frontrunners del canone novecentesco – «è difficile essere eredi», chiosava, non per nulla, Nietzsche, ma ancor più difficile è essere canonici, diventare classici – tanto Bergman quanto Strindberg hanno ottimo materiale con cui candidarsi tra i più fini interpreti di un fenomeno su cui non si sono mai spese abbastanza parole, la secolarizzazione. Nati uno nell’Ottocento, uno nel Novecento, a sette decenni di distanza, hanno ugualmente testimoniato un’epoca – anche psicologica – in cui i simboli religiosi avevano ancora un senso, la religione già stava iniziando la sua mai conclusa evaporazione. La distanza che separa noi da Bergman, che pure è morto nel 2007, in tempi relativamente recenti, è maggiore dalla distanza che separa Bergman da Strindberg: nel frattempo, si è consumata una crisi del simbolo. Opere come Il pellicano, con il suo inquieto totemismo matrilineare, o Il settimo sigillo, simbolica fino alla sfacciatezza, hanno con gli archetipi del nostro immaginario un rapporto di una potenza che non possiamo più ritrovare, nell’arte o nella narrativa contemporanee: da qui deriva la loro forza, da qui sgorga la loro severità.

Conversazioni con Ingmar Bergman
Oliver Assayas, Stig Björkman
Lindau (Torino)
pp. 100

Lanterna magica. Autobiografia
Ingmar Bergman
Garzanti (Milano)
pp. 260