Festival della canzone Italiana – Sanremo 2011

Ancora tu? Pecora nera della musica, la musica si, quell’arte sensibile ed ispiratrice che anche la perfidia politica di Platone si degnava di salvare.

Ancora tu? Voce unica, omologatoria e unidirezionale che se la canta e se la suona, senza più contraddittorio notturno, autentico onanismo finto-chic.

Ancora tu? Ogni anno sempre più uguale e sempre più stucchevolmente fasullo, mimesi di te stesso, pacchetto di vacue promesse e di orride certezze.

Ancora Sanremo? E specialmente perché ancora ne parliamo e ne scriviamo?

Noi come orde di disciplinati medievali, prima cediamo alla tentazione e fruiamo, sbirciamo, aspiriamo a pieni polmoni, questo stardustmemories ridotto a polveri sottili cammuffate da paillettes, e poi siamo subito pronti a flagellarci, chiedendo misericordia per i nostri peccati in nome di “Studio uno”, “Un, due, tre”, “Chi legge?” e di tutta la solida RAI democristiana.

Ebbene si lo confesso, dopo aver fatto volentieri a meno delle flaccide forme alla margarina della Clerici lo scorso anno (ritrovandomela quest’anno in apertura, solida Conippa strizzata in un abito troppo cheap anche per gli abitanti di Cartoonia), ho deciso di peccare nuovamente. Perché a Sanremo non c’e’ mai limite al peggio e sono sempre spinto da una malsana curiosità e da un gusto dell’orrido verso questo teatrino degli orrori e degli errori (clamorosi!), ingombro di una vuota estetica ermeneutica, interprete assoluta delle idiosincrasie con le quali siamo costretti a vivere.

Prima di chiosare, chiarificando quanto sino ad ora esposto, mi vedo costretto a soffermarmi almeno un pò su questa inutile sovraesposizione di solfeggi e gorgheggi idioglossici, per poi correre ai ripari ed espiare le mie colpe.

La conduzione non è mai stata il jolly del festival sanremese, ma quest’anno, oltre alle ormai immancabili gaffes (facenti parte del folklore festivaliero), la conduzione è stata pura evanescenza, uno iato – perpetuo ed interminabile – interrotto ogni tanto dal plastico sorriso di Belen Rodriguez e dallo stolido sguardo (espressivo come una forma di pecorino sardo) di Elisabetta Canalis. Mentre lo iato stesso è vanto ed orgoglio dell’eterno ragazzo di Monghidoro.

Morandi, agile e dinamico come il palo della banda dell’ortica, snaccherava qua e la il suo: “Stiamo uniti… siamo una squadra!”, per poi tornare nuovamente in standby.

E la satira? Una parolaccia, se messa in bocca a quelle due iene poco ridens di Luca e Paolo, troppo impegnati a mostrarsi calco sbiadito di loro stessi, cop℗ia conforme agli standard di una RAI berlusconizzata. Niente satira quindi, nemmeno sfottò, solo qualche risolino imbecille e delle ignobili pernacchie rivolte a coloro che tengono ancora coraggiosamente alto il megafono dell’informazione.

Vorrei soprassedere, per quanto riguarda i cantanti e le canzoni, ma spendo giusto due parole atte a sottolineare l’aridità artistica che sta sempre più desertificando l’oasi, tra l’altro già ridotta, della musica italiana.

Salvando il salvabile, in ordine:

  1. Davide Van De Sfroos con la sua gustosa piadina salgariana, tra radici folk e passioni latine (sarà perché sono un salgariano di ferro)
  2. Luca Madonia, coadiuvato dal mentore Battiato, viaggiatori alieni (appunto) nella cultura morta di oggi, racchiusi in un’aura salvifica da Sentimento nuevo
  3. Patty Pravo, eterno ed etereo dandy androgino, mito faustiano di intere generazioni, sempre ammantata nel suo decadentismo da sunset boulevard

Per il resto le solite radure brulle, come penoso scenario della nostra discografia, tra cui si fanno notare, apici del disgusto, le due Anna: la Tatangelo in un rancido look pseudo-punk, interprete dell’ennesima cafonata alla melassa melodica fintamente arrabbiata, e la Oxa che, agghindata come una clochard de le Halles parisiennes, mugola la disperata trasgressione che è in lei.

Solo Roberto Benigni ci restituisce almeno un pizzico di joie de vivre, smessi i panni del poeta lacrimoso e furbetto, stupisce positivamente in una personalissima lezione sul risorgimento, tra il serio e il faceto, con una spolverata di satira d’attualità (eccola finalmente!), senza sbracare nel facile turpiloquio e in eccessive carnevalate corporali (qui altrimenti decisamente immotivate).

Benigni guarda alla lezione affabulatrice e dotta di Fo, edificando un articolato intreccio tra storiografia, poesia, umanesimo e filosofia, durato ben 45 minuti, e facendo scricchiolare l’Ariston, come un fragile zoo di vetro prossimo alla frantumazione.

E noi ancora qui a guardare questa sbeccata vetrina, a spendere cinque serate all’insegna della mestizia più profonda, infine – ardimentosi come scriba dell’antico Egitto e puntigliosi come monaci amanuensi – pronti a trasmutare di forma ciò che abbiamo fruito, sentenziando che la nuova edizione è sempre peggiore della precedente, e che è sicuramente l’ultima che avremo il coraggio di guardare.

Ma passato un anno siamo ancora li impalati, sincronicamente sintonizzati alle 21:00 sul primo canale RAI e sulle note gloriose dell’eurovisione sarebbe doveroso domandarci mentalmente: “Ancora tu?… Ma non dovevo vederti più ?”.