L’occhio e lo spirito

Adieu au langage è l’ultimo film di Jean-Luc Godard, padre indiscusso della Nouvelle Vague e del cinema francese. La pellicola, girata interamente in 3D, ha vinto il premio della giuria al Festival di Cannes 2014 e si prepara a uscire nelle sale italiane a partire dal 20 novembre.

Una coppia e un cane. Niente di più ovvio e tradizionale. Ma non se il regista si chiama Jean-Luc Godard. La sua rivoluzione è iniziata 55 anni fa con quel primo film – Fino all’ultimo respiro – con il quale il regista parigino ha accartocciato il cinema tradizionale, il “cinéma de papa”, alla volta di una sperimentazione continua, di una continua riscrittura del dispositivo cinematografico. Insieme a Truffaut, Chabrol, Rivette e Rohmer, Godard ha saputo mostrare “lo splendore del vero”, attraverso riprese manuali, montaggi sconnessi, immagini e suoni troncati.

Ora – a mezzo secolo di distanza e a 84 anni suonati – Godard ci propone un’altra incredibile rivoluzione. Difatti Adieu au langage è la frammentazione dello schermo cinematografico, la masticazione e la defecazione di un linguaggio che non parliamo ma dal quale siamo parlati. È la tridimensionalizzazione degli sguardi, delle prospettive che cambiano, si spostano e si sovrappongono, fino a non sapere più se “siamo in due o in quattro davanti allo specchio”. L’utilizzo del 3D è – come tutto, del resto, in Godard – portato all’estremo: in alcuni punti le immagini si sovrappongono, tanto che lo spettatore avverte l’istinto di levarsi gli occhiali e scoprire il trucco che si cela al di là delle lenti. Ma il gioco non è fuori, è tutto interno alla visione. E Godard sprona tacitamente il pubblico ad aprire e chiudere gli occhi in modo alternato, per riuscire a focalizzare la scena, per crearsi autonomamente una prospettiva.

Come Godard fa dire a un personaggio – che non è nemmeno un personaggio, ma un suo frammento, un suo organo, la sua voce – parafrasando Monet, «non si [fa cinema] né di quel che si vede, né di quel che non si vede. Si [fa cinema] del fatto che non si vede». Basterebbe questa frase a riassumere l’intera opera di Godard, dagli esordi fino ad oggi. Il gesto godardiano è un gioco tra visibilità e invisibilità, realtà e finzione, Natura e Metafora – titoli in rosso che inframmezzano il nero d’immagini interrotte e spezzate – che, tuttavia, non sono mai opposte, ma sempre in una relazione di reversibilità chiasmatica. C’è l’occhio e c’è lo sguardo. Che non sono mai la stessa cosa, che non vengono mai a coincidere, perché «il soggetto che vede è esso stesso un luogo della visibilità», come scriveva Gilles Deleuze.

L’occhio meccanico della cinepresa consente di immaginare senza la realtà – perché «la realtà è solo il rifugio per chi non ha immaginazione», dice qualcuno all’inizio del film. Immaginare lo sguardo dell’altro, che è sempre il mio intrinseco scarto da me stesso, questo è quello che ci fa vedere Godard. E ce lo fa vedere proprio sottraendoci la possibilità di una visione narrativa, buttando sullo schermo stralci di frasi, immagini dai colori talmente accesi da far chiudere gli occhi, suoni e musiche interrotte.

Il rapporto che Godard dipinge tra immagine e linguaggio è come il Frankenstein di Mary Shelley – la quale ci è ironicamente mostrata dal regista francese nei costumi dell’epoca – ovvero quello di una reciproca penetrazione deflagrante. Il linguaggio, come insegna Lacan, è una gabbia di significanti che si rinviano l’uno all’altro senza fine. Le parole non possono spiegare le immagini, né accompagnarle, non dipingono nulla, cadono nel vuoto, tanto che, come qualcuno dice a un certo punto, «tutti avremmo bisogno di un interprete per capire ciò che esce dalla nostra stessa bocca». Non “parliamo” le parole, sono loro a parlare noi. E allora bisogna cercare altri linguaggi, contaminare le parole con le immagini, il buio dello schermo nero con i colori accecanti della Natura, l’occhio con lo sguardo. Essere vedenti-visibili, come diceva Merleau-Ponty, toccanti-toccati. Ma anche imparare a vedere attraverso i suoni, a sentire con le dita, ad annusare con gli occhi.

Questo, e molto altro, è il gesto rivoluzionario che accompagna da sempre il lavoro di Jean-Luc Godard e che, in questo addio al linguaggio tradizionale, conferma tutta la sua potenza e la sua carica innovativa. Addio al linguaggio. Ah Dieux, oh langage. Un addio che è tutto fuorché una morte o un abbandono. Un addio che è il Big Bang di un nuovo inizio, di una nuova nascita. Non per nulla il film si conclude con un coro di vagiti – di neonati o animali, poco importa – che irrompono sullo schermo nero. Un urlo primigenio di chi ha appena visto la luce e continuerà a guardarla, andandole incontro, fino all’ultimo respiro.

Titolo originale: Adieu au langage
Paese/Anno: Francia/2014
Regia: Jean-Luc Godard
Sceneggiatura: Jean-Luc Godard
Fotografia: Fabrice Aragno
Montaggio: Jean-Luc Godard
Interpreti: Christian Gregori, Héloïse Godet, Jessica Erickson, Kamel Abdelli, Richard Chevallier, Zoé Bruneau
Produzione: Wild Bunch
Genere: sperimentale
Distribuzione: Bim
Durata: 70’