Dal 2016, Villa Falconieri è la sede dell’Accademia Vivarium novum, prestigiosa istituzione educativa che promuove lo studio e la diffusione di testi classici, medievali, umanistici e postumanistici tramandati in greco e in latino.

Prima di essere trapiantata a Frascati, l’Accademia ha iniziato il suo promettente cammino negli anni ’80, sull’isolotto di Vivara, oggi Riserva Naturale dello Stato, nel golfo di Napoli, quindi si è radicata a Roma, nella moderna sede di Via Aurelia. La sua collocazione finale, nell’elegante villa tuscolana, è stata possibile grazie all’intercessione dell’allora Ministero dei Beni Culturali, del Ministero della Pubblica Istruzione e dell’Agenzia del Demanio.

Nonostante questa travagliata storia, talvolta segnata da battute di arresto dovute a lungaggini burocratiche, l’Accademia non ha mai perso lo spirito che l’ha animata dal principio, ovvero quello di recuperare la tradizione delle scuole residenziali umanistiche, dove studenti di diversa provenienza e di diverso grado di istruzione (scuola superiore o università), sostenuti da borse di studio, vengono selezionati per arricchire la loro formazione, utilizzando il latino – e occasionalmente il greco – come lingua veicolare, acquisendo così le competenze necessarie per fruire direttamente le immortali opere del canone occidentale.

Una delle maggiori innovazioni portate avanti dall’Accademia, oltre all’ambizioso – e per alcuni versi “inattuale” – progetto di riscoprire gli ideali della paideìa e della dignitas homini come principi cardine dell’azione educativa, concerne la didattica delle lingue classiche. “Inattuale”, come sappiamo grazie a Nietzsche, non è affatto sinonimo di “antico” o “fuori moda”; al contrario, proprio perché inattuale, è pieno di rilevanza esistenziale e foriero di urgenti cambiamenti. L’adozione del metodo Ørberg, dal nome dello studioso danese che ne è stato l’inventore, consente infatti ai docenti dell’Accademia, formati secondo la medesima metodologia, di insegnare il latino non secondo il tradizionale approccio grammaticale, come accade in genere per le cosiddette lingue morte, ma in maniera “naturale”, trattandolo – per dirla con Wittgenstein – come una Lebensform (forma di vita), in cui la dimensione sintattica e semantica della lingua sono strettamente connesse alla sua contestualizzazione pragmatica.

Se, come afferma il filosofo austriaco, “il significato di una parola è il suo uso nel linguaggio”, il modo più efficace per apprendere le lingue classiche, analogamente a quelle moderne, consiste nell’utilizzarle come lingue di scambio, nel farne un habitus comunicativo, cui si ricorre non solo come riserva di parole e di regole, finalizzate alla traduzione. Nell’ultimo lustro, per ogni anno accademico (da ottobre a giugno), una quarantina di studenti è stata ospitata nei locali dell’Accademia dove ha avuto la possibilità di frequentare i corsi ordinari (di lingua e letteratura latina e greca, di letteratura italiana, di filosofia antica, di paleografia, di retorica e di metrica delle lingue classiche), ma anche seminari di lettura dei classici, dibattiti e convegni dal respiro internazionale, godendo del privilegio di confrontarsi – sempre in un’ottica pluri e transdisciplinare – con studiosi di tutto il mondo.

La sera del 12 giugno scorso, nella splendida cornice offerta dal complesso borrominiano di Villa Falconieri, si è tenuto il saggio finale degli allievi di primo anno dell’Accademia d’Arte Drammatica Silvio D’Amico di Roma, diretti dal loro maestro di Recitazione in versi, Giovanni Greco. S’io m’intuassi come tu t’inmii, il titolo dello spettacolo che – proponendo un attraversamento delle tre cantiche della Divina Commedia (in particolare della prima) – ha inteso tributare un omaggio al Sommo Poeta, in occasione del settecentenario della morte. La declamazione dei versi danteschi, tratti dai canti più celebri (Inferno V, VI, XV, XXIV, XXVI, XXXIII; Purgatorio II, VIII; Paradiso XVII), è stata affiancata dalla narrazione in prosa di alcuni episodi biografici del poeta fiorentino, soprattutto di quelli legati all’esilio dalla sua amata patria e alla conseguente peregrinazione tra le corti italiane più in vista del Trecento (i Malaspina di Lunigiana, gli Scaligeri di Verona, i Da Camino di Treviso, i Da Polenta di Ravenna).

Non c’è poesia senza sofferenza, non c’è linguaggio senza separazione: “Tu proverai sì come sa di sale/lo pane altrui, e come è duro calle/lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale” (Paradiso XVII). La profezia di Cacciaguida lascia immaginare quale sarà il futuro di Dante, ingiustamente obbligato a vagabondare per terre straniere, e forse proprio per questo destinato a diventare l’esploratore di altri mondi, l’inesausto migrante che varca i confini dell’al di qua verso l’al di là, dell’umano nell’attesa di incontrare il divino. Quanta modernità in questo suo essere-tra

Lo spettacolo – con performance apprezzabili sul piano della recitazione e della padronanza metrica, epperò privo di un’orditura drammaturgica e quindi dal sapore didascalico – si inquadrava nell’ambito del Convegno internazionale “Velut e naufragio emergentes”: crisi e rinascite, organizzato dall’Accademia Vivarium novum, a conclusione dell’anno accademico 2020/21. Una tre giorni (da venerdì 11 a domenica 13 giugno) di altissimo profilo culturale, cui hanno preso parte – alcuni da remoto – studiosi di storia, di letteratura, di filosofia, di economia, di diritto, di discipline matematiche e scientifiche, al fine di dibattere sulla crisi presente e individuare insieme proposte e soluzioni per una rinascita futura. L’appello per un “umanesimo militante”, non più rinviabile dopo gli allarmanti segnali di sfiducia nei confronti dell’Unione Europea e del progetto politico-sociale che la sostiene, l’emergere di pericolosi sovranismi, l’acuirsi delle disuguaglianze e delle inefficienze del Welfare State messo a nudo dalla pandemia, è stato affidato a intellettuali di diversa provenienza e formazione, accomunati dalla stessa esigenza di comprendere il mondo in cui viviamo e di immaginare i destini dell’humanitas.

Hanno preso parte a questo consesso, oltre all’illuminato e tenace Direttore scientifico dell’Accademia, Luigi Miraglia, che ha aperto i lavori regalandoci analisi e riflessioni ad ampio raggio, prendendo spunto dal celebre verso hölderliniano “Wo aber Gefahr ist, wächst das Rettende auch” (Lì dove cresce il pericolo, cresce anche ciò che salva), intellettuali e ricercatori del calibro di Serge Latouche, il teorico della decrescita felice, Miguel Benasayag, filosofo e psicoanalista noto ai più per essere stato l’autore del fortunato volume L’epoca delle passioni tristi, il neurobiologo Lamberto Maffei, il matematico Sergio Albeverio, la studiosa del pensiero politico rinascimentale Tiziana Provvidera (curatrice dell’edizione critica delle opere di Giusto Lipsio), e molti altri ancora.

Qualche giorno dopo, abbiamo incontrato Luigi Miraglia e alcuni membri del suo staff: ne abbiamo così potuto apprezzare l’ospitalità, la prodigiosa passione umanistica, la formidabile determinazione nel perseguire il progetto – già in corso di attuazione da alcuni anni – di traghettare il Campus Mondiale dell’Umanesimo verso una dimensione schiettamente globale. Tutte le sfide lanciate dal tempo presente sono raccolte con la giusta misura di slancio “visionario” e di realistica concretezza: dalla creazione di altri centri di formazione umanistica – di stampo residenziale, come la Vivarium novum – in paesi lontani (per esempio, in Cina), per venire incontro alla crescente esigenza di conoscere le radici greche e latine della civiltà occidentale, al consolidamento e alla costruzione di nuovi rapporti di collaborazione con istituzioni, università, enti di ricerca europei, all’attenzione verso il mondo della scuola italiana con l’intenzione di ampliarne l’offerta formativa, di innovarne le pratiche didattiche e di aggiornare il personale docente.

Last, but not least: la necessità di superare una volta per tutte l’ottocentesca separazione tra Naturwissenschften (scienze della natura) e Geisteswissenschaften (scienze dello spirito), o – se si vuole – tra le cosiddette Hard sciences (scienze dure) e le Humanities (scienze umane). Nella prospettiva di un neo-umanesimo integrale e integrato, le procedure epistemiche dello “spiegare” (erklären) e del “comprendere” (verstehen) non appaiono affatto contrapposte, ma inserite in un circolo virtuoso in cui – per dirla con Ricoeur – è auspicabile “spiegare di più per comprendere meglio”. In questo quadro, le questioni ontologiche (per esempio, che cos’è la realtà? o come avvengono i fenomeni?) non vanno considerate di esclusiva pertinenza delle scienze naturali, allo stesso modo in cui le questioni esistenziali (per esempio, che senso ha la mia vita? o cosa c’è dopo la morte?) non vanno considerate di esclusiva pertinenza delle scienze umane.

Il dato di partenza è che l’uomo è-nel-mondo, abita una storia e un linguaggio che, in parte, eredita e, in parte, innova. Pensare di poter sciogliere questo legame di appartenenza, sposando il mito di uno spettatore disinteressato che scruta l’universo come fosse un oggetto pienamente dispiegato dinnanzi a lui, equivale a misconoscere la dimensione incarnata della nostra humanitas, legittimando così una serie di credenze e di prassi, non sempre positive, oggi sotto agli occhi di tutti: dall’anomia disumanizzante all’alienazione del lavoro, dall’impressione di vivere in un eterno presente, privo di memoria e di stratificazione storica, all’incapacità di articolare concetti e di pensare in modo complesso, dall’impossibilità di sentirsi parte dell’ecosistema alla presunzione di manipolare illimitatamente ogni cosa, compresi gli altri esseri viventi, senza porsi alcun problema (bio)etico.

Durante la conversazione con Luigi Miraglia, è apparso evidente come la dimensione globale del Campus dell’Umanesimo dipendesse non tanto, o non solo, dalla sua aspirazione cosmopolita, raggiunta attraverso l’accoglienza di studenti e studiosi provenienti da tutto il mondo, ma anche e soprattutto dalla capacità di restituire all’uomo la sua umanità, aiutandolo a riconquistare – per dirla con Goethe – la sua eredità (Was du ererbt von deinen Vätern hast, / Erwirb es, um es zu besitzen). In questo quadro, la questione della continuità generazionale e della trasmissione della cultura umanistica appaiono essenziali: nessun uomo può fabbricarsi da solo, siamo tutti figli dei nostri padri, o dei nostri maestri.

È doveroso, dunque, sapere da dove proveniamo per proseguire il nostro cammino nel mondo: “l’humanitas come opposta alla feritas, consiste in una razionalità non intesa come sola ragione calcolante, ma come luce che permette, attraverso un processo di dimostrazione e di argomentazione, di vedere distinti i contorni delle cose fugando la caligine di passionalità e affetti scomposti; nella parola che a quella razionalità dà forma e comunicabilità (lógos, ratio et oratio); nella socialità, che s’alimenta d’un’educazione al dominio degli egoismi, al sentimento dell’unità del genere umano visto come un corpo dalle membra diverse, a quella solidarietà verso gli altri che già Cicerone chiamò caritas generis humani e gli stoici avevan detto philanthropía, nella ricerca ed esigenza naturale del bello, del giusto, dell’armonia in cui ogni cosa sia posta ‘al suo posto’ e sia dato tò prépon ekásto, unicuique suum” (L. Miraglia, L’umanesimo e i “suoi principi primi”, in «Paradosso», 2/2019, numero consacrato a “Umanesimo, Humanismus, Humanisme”).

A questo riguardo, di grande rilievo e lungimiranza ci è sembrata l’iniziativa di integrare lo studio delle lingue e delle culture greca e latina con le arti performative e le odierne tecnologie comunicative, disegno che dovrebbe culminare nella creazione – all’interno dell’Accademia vivarium novum – di un’apposita sezione consacrata allo studio dei linguaggi digitali e alla realizzazione di prodotti multimediali, capaci di immettere con impeto e rigore i valori della paideìa e dell’humanitas nel presente e nel futuro dei giovani, e non solo.

Se, come afferma McLuhan, “il medium è il messaggio” ed è pertanto necessario distinguere tra media caldi e freddi (che richiedono al fruitore un maggiore coinvolgimento e partecipazione), non è più rinviabile la riflessione sulle – e l’adozione delle – modalità di trasmissione della cultura oggi più comuni, evitando di cadere nella trappola dell’individualismo esasperato cui può condurre un uso scellerato dei cosiddetti “simulatori di prossimità”.

Questo allargamento di prospettiva chiama in causa gli operatori del mondo della scuola e dell’arte: “verum et factum convertuntur”, dichiara Giambattista Vico, o anche “si impara facendo” (learning by doing), nel senso che valori e conoscenze non vanno assimilati e riprodotti in modo meccanico, ma interiorizzati in modo creativo, trovando soluzioni originali volte a colmare il divario sempre crescente tra la cultura soggettiva e quella oggettiva, tra Kultur e Zivilisation: l’uomo “non è dato una volta per sempre: deve diventare sé stesso, compiere nella libertà di scelta la sua natura, in un processo dinamico e non statico” (L. Miraglia, L’umanesimo e i “suoi principi primi”, in «Paradosso», 2/2019).

Il teatro potrebbe aiutarlo in questa incessante opera di autoeducazione, configurandosi come l’arte performativa più sintetica, come momento di autocoscienza privilegiato della civiltà cui apparteniamo, come spazio creativo per la drammatizzazione dei testi classici, come campo aperto di riflessione e di costruzione di valori squisitamente umani.