Duetto

Il cinema italiano coevo si rivela una volta di più privo d’idee, che deve cercare all’estero, e incapace di una realizzazione che sappia valorizzarle.

Dopo averlo incontrato in una discoteca romana, una ragazza convince un coetaneo ad accompagnarla a casa nel quartiere del Pigneto. Trovare un parcheggio, però, non è facile e i due vagabondano nottetempo per la città, finendo col conoscersi meglio e l’innamorarsi.

La versione italiana dell’omonimo film israeliano del 2011 sconta molti difetti che ne minano le fondamenta e ne inficiano la riuscita. A cominciare dalla messinscena, afflitta da scelte formali banali come le nuvole e le automobili velocizzate che scorrono le prime nel cielo e le altre sulle strade, viste innumerevoli volte non solo al cinema ma anche nelle pubblicità; musica da discoteca a riempire il silenzio durante le corse in macchina per Roma deserta; infine, una staticità della macchina da presa, dovuta forse alle esigue risorse a disposizione del regista, che si concentra sui primi e i primissimi piani degli attori e finisce così col rendere asfittiche le inquadrature e bolso il ritmo narrativo. Quasi tutto il film è infatti girato all’interno dell’abitacolo di un automobile e le inquadrature dominanti sono, come si diceva, i primi piani o almeno i piani medi: tale scelta regista esclude così i campi lunghi e la città dove la storia è ambientata viene confinata in poche inquadrature che assolvono alla funzione di piani d’ambientazione, giusto per rammentare allo spettatore dove si svolge la storia: nulla più di un intermezzo, di un alleggerimento rispetto al filone principale costituito dal fitto dialogare fra i protagonisti; la città non diviene mai un personaggio, dunque, ma rimane sempre una mera scenografia, uno sfondo privo di reale importanza, tanto che il film avrebbe potuto esser girato altrove senza produrre sostanziali mutamenti nella trama. Il regista sembra dunque rinunciare, più o meno consapevolmente, a sfruttare i diversi tipi d’inquadratura a disposizione (dal campo lungo al primissimo piano) e si concentra sulle inquadrature che privilegiano la figura umana e in particolare il volto, senza però che tale scelta si configuri come una marca d’enunciazione stilistica coerente e motivata, senza che acquisisca specifiche finalità espressive e apparendo invece dettata, come s’accennava, dalla limitata disponibilità finanziaria che non ha consentito riprese più complesse o comunque una maggior presenza d’inquadrature che inserissero i personaggi nell’ambiente urbano dove la vicenda si svolge e quell’ambiente valorizzassero nella sua unicità e specificità. Se il film sceglie dunque di semplificare al massimo il suo linguaggio, di limitare le possibilità espressive del lessico cinematografico, a vedersi caricati di un onere non da poco sono la sceneggiatura e le interpretazioni dei protagonisti. Riguardo alla prima, trattandosi di un adattamento e non di un’opera originale, il lavoro degli autori, più che all’ideazione di scene e di uno sviluppo narrativo, si riduce ad una riscrittura dei dialoghi per acclimatare un film ambientato a Tel Aviv nella periferia romana. Nel tentativo, però, gli autori  abusano dei dialoghi, che oltretutto si vorrebbero brillanti e arguti, da commedia sofisticata, ma si rivelano più spesso o banali o posticci, eccessivamente verbosi, tanto da suonare falsi e costruiti, scritti appositamente per un’opera di finzione, sprovvisti dunque di naturalezza e spontaneità; spesso poi gli scambi di battute fra i protagonisti sono gravati da un’inutile e compiaciuta volgarità, con abbondante uso del turpiloquio e riferimenti scatologici. Per quanto concerne la recitazione degli attori, risulta più convincente e naturale quella dimessa e sottotono di Martari, il cui volto scavato e spigoloso dà vita ad un personaggio introverso e ombroso, restio a lasciarsi andare a confidenze ed effusioni, al contrario della sua controparte femminile (lievemente somigliante Eva Green), che tende invece a strafare adottando una recitazione enfatica e sopra alle righe, a tutto svantaggio della credibilità del personaggio. Schematica è inoltre la contrapposizione fra un personaggio maschile taciturno e schivo ed uno femminile esuberante e loquace, impostata com’è su d’un contrasto di caratteri tanto diversi e antitetici da finire col completarsi a vicenda nell’inevitabile e prevedibile lieto fine. Un elemento potenzialmente interessante lasciato cadere è la comune estraneità dei protagonisti alla città luogo del loro incontro: milanese lei e veronese lui, sono ambedue forestieri a Roma; ma la sceneggiatura non si preoccupa d’approfondirlo, come non viene approfondito il ruolo dell’ex fidanzato della protagonista, che appare dal buio giusto per interrompere gli amanti sul più bello e nel buio scompare pochi minuti dopo esser entrato in scena. Il film corre dunque verso il finale più anodino e conciliante possibile, quello che vede la formazione di una nuova coppia, giovane e bella come vuole la tradizione, che come massima trasgressione si concede una canna in macchina. La vaga somiglianza con Le notti bianche (1957, di Luchino Visconti), ispirato al romanzo di Dostoevskij, vista la derivazione del film di Silvestrini da quello del regista israeliano Roi Werner, è probabilmente casuale e non intenzionale.

Titolo originale: 2night
Regia: Ivan Silvestrini
Soggetto originale: Roi Werner, Yaron Brovinsky
Adattamento e sceneggiatura: Marco Danieli, Antonella Lattanzi, Antonio Manca
Fotografia: Davide Manca
Montaggio: Alberto Masi
Musica: Marco Jacopo Bianchi- Drink to me
Scenografia: Federico Baciocchi
Costumi: Sara D’Angelo
Interpreti: Matilde Gioli, Matteo Martari, Giulio Beranek
Prodotto da Alessandra Grilli, Serena Sostegni
Genere: commedia sentimentale
Durata: 74′
Origine: Italia
Anno: 2016