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2001 Odissea Nello Spazio

Recensione: 2001 Odissea Nello Spazio

Spazi indefiniti, deserti, e già chiusi, inquadrati, immagini viste da un monitor, una mente schermo a mostrare un tutto già registrato e meccanicamente ripetentesi. Poi (infatti) l’uomo, anzi, prima dell’uomo: la scimmia, e la lotta per la sopravvivenza. Quasi un do*****entario: è la possibilità del meccanismo-cinema di annullare il tempo e inquadrarlo.

Come se una civiltà avanzata con i propri mezzi tecnologici si fosse spinta fino (in avanti o indietro nel tempo) ad inquadrare il prologo della nostra Storia. Queste immagini risuonano come un ritrovamento, immagini lasciateci da una civiltà superiore alla nostra, l’invenzione del ‘cinema’ prima del cinema, prima dell’uomo, prima del tempo. Eccone infatti la sua apparizione solida, pura, insieme concreta e astratta, nel monolito, concentrazione e vuoto di senso prima ed oltre l’uomo, purezza ed annullamento della visione, prima e dopo l’occhio (forma senza forma è detto in 2010-L’anno del contatto di Peter Hyams). Ed è proprio all’ombra dell’artefatto più totalizzante che la scimmia-uomo scopre l’arma, scopre il (suo essere) mezzo, strumento. La scimmia sperimenta l’eliminazione dell’altro e il potere, che è un potere soprattutto su se stessa, subìto, condizionato dal monolito.Ellissi…che nasconde un buco: dove Kubrick elimina tutta la storia del cinema. Nello spazio tra l’osso e l’astronave finisce il cinema (mai) realizzato, fino al 1968 anno di uscita, al 1992 anno di nascita di Hal 9000, al 2001 titolo, 2002 anno della seconda odissea di Trumbull/Cimino, 2010 sequel.. Un buco nero, un collasso inarrestabile.. Più che un viaggio nella storia del cinema, è un viaggio nel cinema come unico spazio possibile. Con “2001: Odissea nello spazio” il cinema si reinventa, ri-inizia, prima mostrandosi dove ancora non poteva esistere, nel deserto del tempo, nel Prologo di tutti i prologhi con le scimmie, primi ‘soggetti’ della storia; e poi nel nero, nel vuoto/pieno ricreato in studio, il set, una stanza, buio, musica ed astronavi. Méliès dunque, i modellini ma ricreati con il massimo di realismo, senza lo spazio dell’artificio teatralmente esibito; e allora anche Lumière, perché è il ‘do*****entario’ ad interessare Kubrick, riprendere dal vero, anche se si tratta sempre di set. Lo spazio fantastico mélièsiano, il trucco e sua realizzazione assoluta nello spazio reale che solo grazie a Lumiere (luce) è stato possibile. Ma qui forse siamo addirittura nel Black Maria, il cubo nero di Edison, il luogo fisico dove si formarono le prime immagini di cinema. In questo spazio inedito l’oscillazione nel vuoto, movimento immobile, seduti al cinema come in un’astronave (e immobilità del movimento: il fotogramma, fine del cinema, fine di un’illusione e principio di un’ossessione). Neanche l’esser dentro l’astronave (Discovery, il cui nome significa ricerca, itinerario) ci dà la certezza di un punto saldo e di una traiettoria, perché nel nero ogni determinazione è perduta, la circolarità è sempre in agguato, ci ha ormai contaminato i sensi.. La scimmia scopriva il meccanismo, lo strumento unito all’arto, la mano, il braccio, poi è l’evoluzione: è il meccanismo a contenere l’uomo come l’astronave i suoi passeggeri; in più c’è Hal, meccanismo-uomo, l’essere-manufatto ‘perfetto’ (alla fine la scimmia è solo un giocattolo promesso alla bambina in regalo per il suo compleanno). E Hal è così avanzato da potersi permettere regressioni nell’umano sentimento, mentre l’uomo è più gelido della sua creatura.Il rischio della circolarità è anche all’interno: la celebre centrifuga dentro la quale ruota la cameriera, oppure la corsa senza fine ma chiusa su se stessa di Poole, ecc.. Ed è la Discovery stessa a presentarsi con quest’ambiguità: enorme sfera al termine di un ‘corridoio’, assomiglia a un bulbo oculare con i suoi filamenti, senza più contatti con un cervello spentosi nel vuoto.È l’uomo ad apparire come riflesso, in un’altra forma circolare che è l’occhio rosso di Hal, il quale sembra proiettare (Hal è personaggio centrale) lo spazio attorno a sé, uno spazio distorto, sottosopra, al limite delle leggi fisiche e logiche, come se lo schermo sfidasse il quadro per divenire cerchio. Lo spettatore è invitato a percepirne il movimento lento ma continuo, anche quando l’inquadratura è fissa, perché fuori, nel vuoto, l’astronave si sposta. È una nuova suspense, sospensione nel timore di cadere, sospensione come relazione non familiare con l’ambiente, suspense che si fa fisica, ‘carnale’ esperienza del corpo (A. Michelson).Hal sospetta (è umano!), sente che il viaggio è pre-destinato, ha incoscienza dell’inganno, del fallimento del meccanismo, il programma a terra lo prevede, ma il suo scopo è segreto. Il sospetto lo porta alla paura che lo spinge a creare un difetto falso, una sua rielaborazione, una copia, un doppio. Hal quindi sa di non sapere.Poole e Bowman si ritrovano soli in un’astronave guidata da una mente in errore in uno spazio nero, illeggibile: questo spazio nero è il monolito stesso, che come uno schermo sembra contenere immagini.Hal e il monolito, alternanza di un vuoto e di un pieno. Il monolito è ciò che non è permesso ad Hal: Hal è onnipotenza della visione ma anche illusione, dato che è già tutto registrato da altri, già visto, controllato. Hal è sguardo perpetuo, è una palpebra sempre spalancata, è il vedere e soprattutto l’essere visto, è lettura (nel mito: occhio di ciclope che finirà infilzato). Il monolito è il nero, l’assenza di visione (nel mito: cecità che è anche forma pura di conoscenza), entrambe sono forme di perfezione, controllabile la prima, incontrollabile (extraterrestre) la seconda. Il monolito è contenitore e contenuto, è il luogo in cui tutto succede, lo schermo nero in cui tutto prende forma, un buco che genera immagini ma anche la loro morte (il buio nell’obbiettivo se non c’è la luce). Possibilità e chiusura, il monolito è tutto, Hal è solo possibilità di immagine. E’ l’errore umano a bloccare Hal, solo che l’uomo nuovo non lo può ammettere, la sua fede nella ratio non glielo consente, la macchina da lui creata non può sbagliare. Ma l’uomo nuovo è tale perché non è al corrente del programma (Bowman non sa o non è programmato per sapere che il suo nome, uomo-arco, è morte: Il nome dell’arco è vita ma la sua azione è morte, K. Kérenyi). Bowman uccide Hal. La m. D. P. diventa mobile, entra in Hal come un virus ed uccide. La mente Hal sembra una videoteca, tanti monoliti neri, riserve-nastri di memoria, VHS: parallelepipedi neri contenenti un fascio d’immagini, nastro che srotola mondi illusori grazie alla luce, ma tutto rimane chiuso in quell’involucro. L’uomo-macchina toglie la vita alla machina-uomo. L’uomo uccide se stesso nella sua versione più perfetta. È un suicidio (Cristo si fa uccidere in croce ma sapeva: è un suicidio?
Cristo è l’errore di Dio?). Il viaggio verso Giove era un inganno, la Discovery, tutto era un inganno, non è dato sapere il fine del viaggio; l’unico che poteva ‘sapere’ era Hal: in una registrazione-ricordo inaccessibile che Bowman scopre solo alla fine, una volta spento il cervello-Hal; poiché il Potere così aveva stabilito.Bowman sceglie di continuare il viaggio, portare dunque a compimento il circuito istauratosi nel tentativo di sfuggirlo. Bowman abbandona l’astronave (fantasma, ormai piena di cadaveri) e procede da solo. Il viaggio più programmato sprofonda nel vuoto.Impatto col tempo: violenti stacchi tra immagini immobili, il dettaglio dell’occhio, un fotogramma, ed immagini di sprofondamento nello spazio, i migliaia ed oltre di frame dell’alta definizione, fino al virtuale ed oltre ancora. Lo spazio e l’occhio, luce e oscurità, stasi e movimento, dentro e fuori fino a precipitare dentro ad una camera. Dall’infinito ad un piccolo spazio chiuso.Assenza di tempo: non sappiamo dove, né quando. Perforare lo schermo ci conduce in una camera, riflesso illuminato del nero dell’obbiettivo, dove nascono le immagini; luce in sala, dove muoiono le immagini. Spingerci in avanti ci riporta dentro (ci ribalta nella poltrona) dove tutto ha inizio e finisce al contempo, tutto il tempo concentrato in una stanza. Tutto il fuori ricondotto al dentro, un dentro senza confini. La realtà del viaggio è una camera, lì sperimentiamo la separazione da se stessi. Bowman si vede sdoppiare, invecchiare, morire-rinascere accanto all’occhio invisibile che sovrintende ogni immagine. In/su tutto questo domina il monolito: era all’esterno, lo ritroviamo ora anche all’interno, ma la m. D. P. si avvicina, l’inquadratura diventa nuovamente cielo-nero-monolito senza bisogno di una dissolvenza, anzi dissolvenza impossibile, dato che è un nero che si dissolve in un nero, una porta che si apre nell’oscurità (anche se poi arriverà l’enigmatico feto astrale), poiché la dissolvenza è il monolito, è tutto il cinema, quando tutto è morto e tutto deve ancora nascere.

Nota: di Tomas Tezzon
2001 Odissea Nello Spazio

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