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Primo Amore

Recensione: Primo Amore

Nella cronica carenza di talento che attanaglia ormai da anni il cinema italiano, Matteo Garrone si distingue come uno degli autori più interessanti, sia per l’originalità del suo stile di regia, influenzato dai suoi trascorsi da pittore, che per scelta di storie raccontate.

SCHEDA TECNICA

SCHEDA DVDDopo il suo debutto con “Terra di mezzo” nel 1996 ed i seguenti “Ospiti” ed “Estate romana“, si cimenta per la prima volta con una produzione ricca (per i parametri italiani) e con una solida sceneggiatura ne L’imbalasamatore (2002), film con cui il giovane regista romano si è imposto all’attenzione del grande pubblico. E’ nel 2004 però che Garrone partorisce l’opera della maturità: Primo Amore. Scritto a quattro mani con Vitaliano Trevisan e liberamente ispirato al romanzo di Carlo MarioliniIl cacciatore di anoressiche“, racconta la storia di un orafo (interpretato dallo stesso Trevisan) ossessionato dalla magrezza, che trova in Sonia (Michela Cescon) la vittima ideale, una donna frustrata negli affetti e bisognosa d’amore, disposta a compiacere ed assecondare gli insani desideri del compagno. Si crea tra i due una pericolosa simbiosi che lentamente distruggerà la vita di entrambi: Vittorio vedrà la sua oreficeria fallire a causa del suo disinteresse, Sonia perderà peso fino a rischiare la sua vita, ma avrà la forza di ribellarsi. Ancora una volta dopo L’imbalsamatore, Garrone sceglie di raccontare i pericoli (o se vogliamo usare un termine sorrentiniano le conseguenze) dell’amore, la follia e il compromesso morale di un sentimento che annullla l’identità individuale e che riduce le persone a grumi di disperato desiderio (Vittorio) o a volontarie vittime dello stesso (Sonia).

Lo fa con il consueto stile semi do*****entario, simile a quella che era stata la cifra dei suoi primi lavori: prevalenza del piano sequenza sul montaggio frammentato, fotografia curata al minimo dettaglio, scene girate in ordine cronologico (cosa più unica che rara), recitazione naturalista.

Stavolta però c’è anche il dono della sintesi. Merito di una regia asciutta, senza ridondanze, controllata ma allo stesso tempo sempre alla ricerca di nuove soluzioni sia dal punto di vista cromatico (l’uso di colori sbiaditi) sia da quello espressivo e formale (i primi piani sfocati, il nero che invade l’immagine). Il regista romano ha fama di essere un perfezionista. Pretende dagli attori un immedesimazione completa nei personaggi fino quasi a confondere la vita reale con la finzione. Esige l’assoluto controllo sul montaggio finale e se ritiene il lavoro incompleto in sede di post produzione torna sul set con una troupe ridotta per girare le scene mancanti (anche questa un’anomalia rispetto al normale processo produttivo di un film).

Per questi ed altri motivi Garrone è stato accusato di essere un cinico, una specie di crudele dittatore del set, da alcuni critici probabilmente poco attenti ai rari casi in cui il talento trova uno spiraglio per emergere dal marasma di filmetti adolescenziali e scimmiottamenti all’americana che dominano tristemente il nostro cinema.

Nota: di Giuliano Iaccarino
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