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Dune

Recensione: Dune

Raccontare il vuoto attraverso i suoi strati, i suoi veli, è il cinema di Lynch che approda (1984, ma passaggio obbligatorio per “2001”) nel deserto: come la notte (come la neve) set assoluto, vuoto di segni, purezza (astrazione) del segno, Dune.

Ancora il cosmo, le stelle e due occhi (vedi Elephant Man), Irulan, quintessenza del femminile, e la sua voce: In principio è un periodo di delicati equilibri, buio, luce e poi un fiume di forme e colori e voci. Il Navigatore di Terza Generazione, l’Essere Supremo, un’enorme larva, legge nella mente: Tu sei trasparente, vedo progetti entro altri progetti.È il cinema di Lynch, trasparente e a più strati, uno schermo annegato in sovrimpressioni. Si parla di nuovi progetti sul suono, sulla voce, di una droga che annulla lo spazio, di addestramento alla lettura del pensiero: oltre le mura, i limiti, le strutture (il potente apparato delaurentiisiano).

Suono: voci e dialoghi usati come sovrimpressioni grazie alla telepatia, voci che ripetono come echi e non spiegano, ma sono parte componenete l’immagine. Non sono lì per comunicare niente, anzi ripetono ciò che già si vede. Le voci-in di “Dune” servono semmai per incantarci, come componessero il testo sonoro di una litania, o costituissero il recitativo di una formula magica o di una preghiera.

E poi la tecnica straniante: alcuni pensieri emettono dei suoni che diventano l’equivalente di una forma solida. Usando suoni e movimenti diventerete capaci di modificare la realtà, insegna Paul Muhaddib ai Fremen.

Il tempo, lo spazio: Chi ha il controllo della spezia avrà il controllo dell’universo!, grida il barone Harkonnen (vi ricordo che qualcosa di simile sosteneva Hitler a proposito del cinema), è il potere di annullare lo spazio e di controllare il tempo, come un regista con i suoi film, che racchiude un mondo dentro lo spazio di uno schermo. Tutti agiscono, si muovono, ma la fine è già scritta (e diventa tautologico sostenere questo per un’opera cinematografica, e forse anche per la Storia da quando c’è il cinema). Paul Muhaddib conosce l’avvenire a memoria e il film stesso ha la struttura della profezia.

Muoversi nel tempo: è una dissolvenza che fa passare da un pianeta all’altro Paul e i suoi genitori nell’astronave in viaggio da Caladan, dissolvenza che vediamo insieme a loro, atraverso i due oblò (occhi), loro seduti come al cinema, noi come in una grande astronave. Il film in certi punti sembra per l’addensarsi di immagini, un trailer, la sintesi di un film. Dove lo spazio è stato annullato il tempo si ripiega in se stesso e si arrotola, scorre verso un itinerario circolare e infinito, un dipanarsi senza fine, una spirale o meglio un palindromo.

Non esiste una vera e propria linea narrativa: si può anche iniziare a leggere dal centro e andare sia in un verso che nell’altro dice Lynch in riferimento alla striscia a fumetti “The Angriest Dog in The World” che esordisce sul Los Angeles Reader proprio nel periodo di lavorazione di “Dune” (mentre intraprende la sua odissea nella spazio Lynch trova il tempo anche per una riflessione ‘minima’, da camera, sull’esistenza: Il mondo di questo cane sta tutto nella sua vignetta, definita una volta per tutte e immutabile.

Il cane sta fuori, ma dentro l’immagine comunque, a lato una casa, delle voci che parlano di cose insensate, voci estranee, voci familiari, le sente non le sente, è legato, immobilizzato dalla rabbia più che dalla corda, sveglio giorno e notte: He cannot sleep. He can just barely growl. Forse il ringhio è quello del ricordo, dell’obbligo al ricordo di un tempo indefinito, fantasma. La sua storia si può leggere da una parte e dall’altra, tanto non fa differenza).

Luce: Lynch litiga col direttore della fotografia Fred Francis poiché vuole più scuro (eppure com’è buio il ricordo di quei film della Hammer per i quali è divenuto celebre), avrebbe voluto girare in bianco e nero per accentuare i contrasti da un lato, per confondere ancora di più la percezione dall’altro. Grazie alla presenza di luci galleggianti che seguono i personaggi in scena (è Anthony Masters, già in “2001” ad occuparsi della scenografia), l’ambiente luminoso in “Dune” è particolarmente ricco e mutevole, e quel gioco di luci e di ombre giallo oro rievoca le onde del deserto.

Dinamismo della luce e dell’oscurità: nemmeno il buio è puro, visto che l’oscurità non è il vuoto, ma il luogo in cui si celano forme, luci, visioni. E sono degli effetti visivi (curati dall’hitch*****iano Albert Whitlock, che è anche quello del deserto di ghiaccio che va ad iniziare La Cosa di Carpenter) a rendere liquide le immagini, mescolarle e fonderle insieme, così che tutto sia legato, fecondarle l’una all’altra.

Il duca Leto fa l’amore con Jessica (genereranno Alia.. Aria), i loro corpi e volti si sovrimprimono a immagini di astronavi galleggianti come spermatozoi che si sovrimprimono alla larva-Essere Supremo che sputa lucesperma a creare pianetiuniversi sospesi in un liquido fecondo, un’altra sovrimpressione e si raggiunge il deserto di Arrakis che sottodentro è gravido d’acqua, mosso dal vento il ‘mélange’, prodotto dei vermi che ha il potere di annullare lo spazio. Al posto dell’ellissi kubrickiana (osso-astronave), splendide dissolvenze, sovrimpressioni.

Così le descrive E. Ghezzi: Sono il tempo che è , sono un’immagine che è più immagini, un tempo che si contiene parecchie volte in se stesso, un viaggio che avviene dentro l’immagine e che non ha bisogno di simularsi nel montaggio o nell’azione.

Annullamento di ciò che conosciamo essere la pratica cinematografica: azione-sceneggiatura-narrazione, montaggio (vi ricordo che in Eraserhead le sovrimpressioni e ele dissolvenze al nero o al bianco sono relizzate in macchina e non in laboratorio), set: aldilà del filmico, si sta tutti facendo il medesimo film e si entra in una specie di atmosfera in cui ci si separa dal resto del mondo per penetrare in un altro (Lynch a C. Rodley).

Restano ripresa e proiezione, l’origine, come nell’antica macchina Lumière. Sulla sabbia del deserto già mossa dal vento, sulle sue pieghe, dune, l’immagine respira.

Altri strati: la luce blu negli occhi dei Fremen, ma è luce che come un di più copre l’immagine, ci mostra la natura di effetto speciale che la compone, un ‘difetto’ da artigiano (ma anche le colorazioni sovrapposte tipiche del muto fin dai primi Méliès) e quell’aura blu (blue-back) sembra emanare allora da tutti i personaggi, il loro essere strato (che dire di Silvana Mangano?), strati di luce, compenetrazione e compressione di corpi. Deserto, luce mobile, forme velate, ombre: è nel deserto (della visione) che Lynch ci racconta della indefinitezza del mostro-cinema; l’indefinito come cosa da vedere, corpo da sfiorare, suono da sentire magari col palmo disteso della mano verso quel battito di cuore, di tempo, che risveglia i vermoni (del Carlo Rambaldi dopo “E. T.”), toccare lo schermo come se fosse tessuto, percepirlo come se fosse scultura. Il non vedere (il) nulla come costitutivo del cinema e della visione, questa è la sfida-avventura lynchiana (o semplicemente amore?

Lynch quando gli propongono il progetto fraintende il titolo e pensa ad una donna, June!).

Nota: di Tomas Tezzon

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