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Introduzione al Cinema di David Lynch

Recensione: Introduzione al Cinema di David Lynch

The Alphabet, The Grandmother: Introduzione al Cinema di David Lynch. Siamo alle origini del cinema di Lynch. Pittura in movimento, nel tempo. Un colpo d’aria e qualcosa si muove, inizia ad animarsi. Questo qualcosa, è l’aria (Roland Barthes).

Dalla profondità di un buco nero ecco apparire delle forme, che sono sempre state lì, da qualche parte, pronte per invadere il campo e riempirlo del loro brulichio: The Alphabet (1968), The Grandmother (1970), un nuovo linguaggio tenta di introdursi nello schermo, quello di chi si è ricostruito un linguaggio differente e codificato scrive Michel Chion, insoddisfatto, impaurito da quello comune. Non ha nulla da articolare, nulla da dimostrare, c’è ‘solo’ la possibilità, attraverso l’esperienza cinematografica, di penetrare e di perdersi in un certo mondo. C’è dolore e sofferenza nell’incapacità ad esprimersi secondo il codice alfabetico per la protagonista di The Alphabet; ed è un sogno di fuga, di libertà dal crudele codice familiare quello del giovane protagonista di The Grandmother, quello di poter creare un essere umano (una nonna) che lo protegga e ne abbia cura. Si soffre nel fotogramma lynchiano come in un quadro di Bacon, come in una pagina di Kafka; come nel teatrino in cui il ragazzino ‘immagina’ l’esecuzione dei suoi genitori; e si soffre in quanto si è dentro al frame (= armatura, carcassa; ossatura, struttura; corpo; cornice, quadro dell’immagine; ma anche punto di vista, complotto, trappola, macchinazione, montatura), che squarta il tempo e lo spazio, introdotti a forza come dentro una macchina di tortura, ne fa tanti brandelli che poi Lynch ricuce insieme (24 al secondo) nel montaggio, per creare quella sorta di movimento a-passo-uno o comunque di avanzamento non continuo. Dopo resta ‘poco’. Sparse lettere dell’alfabeto, suoni sconnessi quanto le immagini e come se la superficie del quadro fosse stata forata da tutte le parti, il vento. Rimane appunto un foro, entro cui le immagini svaniscono per poi riformarsi grazie all’animazione. Il luogo in cui ciò avviene è la camera da letto e più precisamente il letto: lì dove si sogna e dove i sogni possono mutare in incubi, è questo il se dei film di Lynch, anche di quelli a venire, rimarrà esso, fuori campo o meglio a galleggiare nascosto, invisibile, come sovrimpresso. Quel letto in cui le lettere aggrediscono la donna che vi giace, o che lei vorrebbe acciuffare per ingoiare, finché alla fine le sanguina la bocca; oppure diventare il luogo in cui ripararsi dalla violenza in famiglia per immaginare, inventare, per creare. Please, remember you are dealing with the human form avverte una voce, un volto distorto in primo piano. Quel grumo di materia che è la nonna di The Grandmother si consuma i fretta, muore infatti soffocata come la donna distesa sul letto in The Alphabet, soffocata dal suo sangue. Come sostiene ancora Chion la donna nel cinema di Lynch “sembra dunque essere l’oggetto di una violenza pedagogica”, vittima del suo creatore (il ragazzino), o di quella voce che la vorrebbe obbligare (aiutare?
) a recitare l’alfabeto, la voce di un creatore giocoso e arbitrario che forse si rivela vessatorio e opprimente, alter ego ingenui eo crudeli del reale creatore che è l’autore-Lynch, il cui monito sopraccitato è a lui stesso che ironicamente viene rivolto, un monito a sé stesso infine. “I film e i quadri sono tutte situazioni che puoi controllare. Prendere un’idea e trasferirla in qualcosa di materiale è un processo meraviglioso. E’ un brivido per l’anima! confida Lynch in un intervista. Forse parla del brivido di poter disporre di forme inafferrabili, le immagini, e insieme il pericolo che questa vertigine sottende, cioè il sogno di ogni regista di costruire una storia, una forma, creare strutture e poi disfarle, il delirio che sta sotto il progetto di fare del mondo un quadro da diseganre come si vuole nella propria mente; il brivido che dà l’idea che sia l’immaginario a trionfare sulla realtà..please, remember you are dealing with the human form! La sovrimpressione come chiave di lettura del cinema futuro di Lynch qui non ha ancora preso corpo, siamo ancora nel buio. Lì, nessuna immagine, tutte le immagini. Lynch sceglie il buio come luogo in cui operare, attimo infinito di riflessione, libertà, ma anche di solitudine , di cecità. E’ un chiudere gli occhi, un vuoto, lo spazio tra un fotogramma e l’altro; forse la necessità di nascondersi dalla concentrazione di immagini che si infilano nello schermo e che rendono impossibile comunicare con un esterno che non esiste, anch’esso legato, basta tirare tirare una corda e qualsiasi cosa entra in campo. Il buio è sempre presente, anche se solo sullo sfondo, magari ignorato (sembra uno ‘spento’ studio tv quello in cui si divincolano i personaggi di The Grandmother), ma è in quello spazio che Lynch mette in scena il suo cinema, per farci percepire quei quadri (i fotogrammi: il momento della verità) che solitamente non vediamo, troppo veloci, e quel che c’è in mezzo, l’interstizio, un vuoto d’aria.. Per farci percepire il silenzio delle immagini: chiudere gli occhi, è far parlare le immagini nel silenzio (Roland Barthes).Ulteriori informazioni: Vedi David Lynch in Parole d’Autore.

Nota: di Tomas Tezzon
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