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Le Due Puglie: Il Cinema di Piva e Rubini a Confronto

Recensione: Le Due Puglie: Il Cinema di Piva e Rubini a Confronto

La domanda è: perché nel decidere di raccontare Bari le scelte stilistiche ricadono spesso su toni torbidi e quasi asfissianti?
Perché non raccontare mai l’altra Bari (che pure esiste da qualche parte) spendacciona, vanitosa, vezzosa e ammiccante, ricca di giovani vuoti e sofferenti, come tutti i giovani italiani?

Perché Bari non può fare semplicemente  da cornice, prestando vie e piazze per un film, come accade a molte città del Belpease?

Questo perché le storie e gli attori sembrano quasi delle scuse per poter mettere in scena la vera protagonista della vicenda, su cui deve focalizzarsi l’attenzione dello spettatore: la città.
Perché c’è tanto da dire su questo equivoco capoluogo stretto nella morsa dei suoi drammi e delle sue contraddizioni che non c’è spazio nè tempo per fotografarne i lati luminosi …come se Bari non si prestasse a racconti gaudenti o semplicemente piacevoli. 
Sembra, cinematograficamente parlando, poter fare da sfondo o ispirare solo storie ambigue, sfumate tra legale e illegale (sto parlando di un film, Lacapagira, che ha avuto la sua massima diffusione non attraverso i canali tradizionali, bensì grazie alla pirateria. Proprio a Bari il vhs dell’opera in questione è fuori catalogo e il dvd non è mai stato prodotto.)
Osserviamo vite colorate da una fotografia cupa che non da’ certo spazio a quel sole che pur tanto spesso tinge d’azzurro il nostro cielo; poco sole e poca luce in Lacapagira, come se il bianco che distingue le nostre vie non fosse uno specchio sincero dell’anima di questo agglomerato urbano, che di tutt’altre tinte si veste nella sua quotidianita’.
Come spettatrice del film di Alessandro Piva mi sentii tradita da una rappresentazione così drammatica e assoluta nel suo squallore: Bari = una montagna di rifiuti!
Soffrii nel pensare al mio luogo di nascita così esportato nel resto del Paese.
No, Bari non è solo quella, anzi per tanti di noi non è affatto quella. E mi riferisco soprattutto alle gia’ citate luci che non rendevano giustizia alla bellezza del Lungomare sbeffeggiato sullo schermo.
Se vuoi fare del realismo pensavo fallo in modo sincero
Ma Piva non voleva essere realista nel senso più asettico e fedele del termine, la sua cinepresa “romantica” dava ai luoghi i colori delle idee, delle vite rappresentate.
E quelle vite, di cui la mia non fa parte, di luci, di mare, di scogli bianchi come le vele delle barche, non ne sanno nulla.
Ed è dura ammettere che il cuore di questa mia citta’ nulla ne sa della sua potenziale bellezza.
  E l’opera seconda di questo colto e disincantato trentenne ritrae ancora una volta Bari tiranneggiata da codici luridi e meschini come le sue vie più interne. Un luogo le cui lotte intestine meritano una rappresentazione cruda tanto quanto cruda è la realtà stessa. Come crudi ed essenziali sono i sistemi di valore che appartengono a chi questa terra la vive e la popola. Nel film Mio Cognato questi sistemi valoriali sono portati in scena da Luigi Lo Cascio e Sergio Rubini. Perché il passaggio a due attori così complessi e interessanti?

E’ stata la prima volta che mi sono confrontato con attori dalla forte riconoscibilità. Quello che mi interessava era ibridare un po’ i generi in un operazione che ha le radici nel forte realismo, e con due attori da cinema industriale. Desideravo confondere questi due elementi proponendo un genere ibrido poco seguito dal cinema italiano. Credevo giusto tentare qualcosa di inedito con una lingua come il barese, per rispondere in qualche maniera ai grandi vuoti lasciati dal cinema italiano a favore di quello americano che percorre sempre stili e situazioni diverse. Intervista ad Alessandro Piva – www.Cinema.it
Con toni più leggeri Mio Cognato ci mostra che esistono più codici linguistici  e comportamentali all’interno di questa città, ed è  doloroso ammettere che ogni barese li conosce. Nasce conoscendoli, anche se chi come me ha vinto la lotteria biologica non ha troppo bisogno di applicarli.
Ce lo mostra A. Piva attraverso un registro narrativo in stile “Commedia all’italiana” condita in salsa agrodolce, un agro che però ci attanaglia quando scopriamo che Vito-Lo Cascio con la sua normalità è il comico del film, mentre Toni- Rubini risulta un’ovvia quotidianità. Sottolineando ulteriormente dunque, che a Bari, desolata terra di nessuno, bisogna saper fare i conti con la normalità piccolo mafiosa, che con i suoi “non detto” e le sue leggi quasi darwinianamente innate si inscrive nel nostro DNA senza destare clamore.
Semplicemente non ce ne accorgiamo, non ne abbiamo più memoria e non ci rendiamo conto di possedere gli strumenti per saper sopravvivere in un luogo come questo. E quando andando al cinema ci vediamo rappresentati così violentemente, senza possibilità di appello ci irritiamo. Ma una porzione di Toni è giocoforza in chiunque abbia vissuto abbastanza a lungo in questa “bella, luminosa città”.
E allora la sensazione di essere stata defraudata di qualcosa , provata all’uscita del cinema dopo Lacapagira scompare. La rabbia per aver visto la mia città dipinta solo in parte si ritrae per lasciar spazio all’amara certezza che quella è la parte che conta.
E un artista che vuole mettere in piazza la vita lo sa.
Diversa e più rassicurante la visione espressa dall’altra perla pugliese per eccellenza: Sergio Rubini.
Poliedrico regista, attore e soggettista, porta sullo schermo forse più se stesso che il territorio, e se dovessi analizzare la sua intera produzione finirei per tracciare un profilo della sua personalità onirico-romantica, che pur affascinandomi, non esaurirebbe la mia ricerca circa la Puglia sullo schermo. Mi limiterò allora a prendere in esame due film anche per lui: Tutto l’Amore che c’è  e L’Anima Gemella, per quanto scindere le opere di Rubini da lui stesso sia lavoro arduo e forse non sarei onesta se tentassi di eccedere in questa operazione analitica.
Il Sud di Sergio è la sua visione di esso.
E’ profumo, è colore, è musica, popolare e non.
E’ terra interpretata con indulgenza e nostalgia.
Le scelte stilistiche si allontanano dall’inesorabilità di Piva nel fotografare la claustrofobica oscurità del luogo in questione. Rubini mette la macchina da presa al servizio di orizzonti azzurri (dove la mia sete di luce si placa!) e prepara lo sfondo per favole tutte mediterranee, fatte di  mare, scogli, casa bianche e abiti freschi e leggeri.
La “sudità” di uno stupro e la paura del diverso vengono trattati in Tutto l’Amore che c’è senza alcun tipo di irritazione o giudizio, come se la mano paterna dell’autore accarezzasse il capo del giovane “peccatore” e sancisse che non è poi così fuori dal comune ciò che lo ha spinto a comportarsi così, e con estrema leggerezza spinge il racconto verso altri ariosi risvolti.
Racconti appunto, illustrati con pennellate color pastello per una vicenda drammatica nel suo essere e leggera nel suo manifestarsi.
La forza narrativa che scaturisce da questo contrasto è forte, dilaniante, e se in un primo momento ti ammutolisce in seguito ti spinge a chiederti cosa effettivamente hai visto. Una favola?
Uno stralcio pietoso (e forse ancor per questo più pugnalante)  della nostra realtà?

Uscita dal cinema dopo la visione de Lacapagira si sa bene cosa si è visto e cosa si è provato. Per Tutto l’Amore che c’è  non è così immediata la ricognizione dei pensieri: una persona è morta dopo essere stata tradita, un’altra è stata violentata, un ragazzino 
è stato umiliato nel suo tentativo di emergere dall’anonimato (vi ricordate quando il passante deride il povero Damiano Russo che si è appena tinto i capelli di rosso?
)
Eppure ci si è divertiti.
A mio avviso Tutto l’Amore che c’è ha risvolti complessi e complicanti per chi lo guarda. Un graffiante e delicato affresco dell’interland barese che ci fa ridere, ci distende, ci commuove ma non smette di sentenziare qual è la caratteristica che contraddistingue la nostra terra: l’ambigua familiarita’ col male. Se Tutto l’Amore che c’è usa una fotografia di ampio respiro L’Anima Gemella è una vera boccata d’ossigeno. Ambientato tra le calette di S. Foca e S. Andrea questo film ci fa uscire dal cinema con il sale sulla pelle.
Di nuovo e di più troviamo luoghi baciati dal sole a incorniciare una narrazione ebbra e abbacinante come il clima, torbido e febbricitante, che abbraccia una favola scheggiata e immaginifica. E qui Rubini urla al mondo il suo amore per il Sud nelle sue manifestazioni meno estreme e più romantiche.
Un Sud brasiliano tanto esoterico e poco polemico.
Nessun interesse nel fotografare il sociale, tanta voglia di raccontare il suo Meridione, poco realistico e tanto indigeno.
Si perché anche Rubini qui non ci fa mancare stupri, coltelli, vendette familiari e sfruttamento operaio da parte del ricco-pappone del paese. Non nega nulla ma relega a sfondo, è la realta’ e va data per scontata. Non è su questo che vuole far riflettere ( vuole far riflettere?
) ma non potremmo comunque mai portare in scena una storia pugliese scevra di questi elementi.
La magia (in tutti i sensi) di Mariolina De Fano è la protagonista pugliese di questo film.
 Nel film è forte la dimensione magica. Ha conosciuto qualche mago nella sua vita?

Mi ricordo che quando ero piccolo stavo a casa mia sulle scale giocando con un rosario. Ad un certo punto mi è caduto giù e non l’ho più trovato… mia madre mi ha detto che era sparito, che l’avevo perso: in quel momento ho visto mia madre come una maga! E’ mago chi crede in una dimensione metafisica, chi vede oltre la realtà, chi crede che accanto a quella reale ci sia una dimensione parallela; chi è convinto che due più due non faccia per forza quattro!! Fellini era un mago, lui sapeva costruire una realtà parallela…  -intervista raccolta su  www.35mm.it
Una magia che è matrice innegabile di riti, scaramanzie, e affonda le sue radici nell’esperienza personale di ognuno di noi.
E’ un rustico essoterismo che Rubini dipinge ancora una volta in modo tenero e con fare ammiccante, che si fonde e confonde con saggezza, perché nel film la saggezza e la parola sapiente provengono proprio dalla “maga” che, ancora una volta in modo ambiguo, si mescola con la figura della timorata di Dio.
Magia e religione dunque, mischiate con abile e realistica leggiadria; quale delle due “professioni di fede” sia poi maschera dell’altra non è dato sapere. Perché la realta’, la nostra realta’, è che le due cose proseguono di pari passo una al fianco dell’altra, i confini si perdono, e questo Sergio Rubini lo ha mostrato in tutta la sua normalità. Senza inquietare, solo esponendo il fatto come dato, di modo che nessuno se ne turbi.
Due modi diversi di indagare la Puglia.
Due Puglie diverse indagate secondo priorità differenti.
Piva e Rubini ci dicono però una cosa insieme: la mia è una terra di contrasti tristemente accettati dai suoi abitanti. E’ un luogo dove la delinquenza e il piccolo crimine hanno immesso nel parlare comune il loro gergo. E il cinema, reale e crudele di Piva, soggettivo e favolistica di Rubini, ci ricordano proprio questo:
l’accettazione muta del male come folklore lo rende “patrimonio culturale” che i pugliesi condividono.
Senza protestare troppo.

Nota: di Roberta Monno
Le Due Puglie: Il Cinema di Piva e Rubini a Confronto

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