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Apocalypto

Recensione: Apocalypto

La recente fatica di Mel Gibson prova a coniugare le caratteristiche fondamentali dei suoi due ultimi film: la spettacolarità di Braveheart e il crudo realismo de “La Passione di Cristo“. Visti i risultati, probabilmente un giorno gli vedremo produrre un reality show.

SCHEDA TECNICA

SCHEDA DVDIl film si sviluppa attorno a elementi in pieno TeoCon Style (strano vero?
): valori (il coraggio, “la paura è una malattia da evitare“, ma forse è anche una forma d’intelligenza ndr), famiglia (quella che si riunisce alla fine e che si trova aumentata di una appena nata unità nata sott’acqua) e tradizione (Almost, il figlio del Giaguaro, torna nella foresta per ricominciare una nuova vita invece che andare incontro agli Spagnoli appena arrivati). Scene frenetiche e disturbanti, lunghe sequenze in cui praticamente nulla succede (come il lungo percorso che va dal villaggio conquistato alla città del Tempio del Sole e che rappresenta praticamente la quasi totalità del film) e un finale impresentabile (ci si aspetterebbe che inizi finalmente qualcosa, invece, e meno male, è finito il film) costituiscono l’essenza e, al tempo stesso, la pochezza  di un film di due ore. Davvero scarso. La trama è semplice: dopo un inizio che ricorda la commedia sexy italiana (simpatiche le gag con il cacciatore sterile giocosamente burlato prima dal pasto dei testicoli, poi da una bella crema al peperoncino sugli attributi), intramezzato dall’incontro con una tribù in fuga con sul viso dipinto il terrore, e concluso dal massacro della tribù (solo i bambini sopravvissuti non vengono fatti prigionieri), il film ci racconta il lungo cammino compiuto, da vincitori e vinti, verso la città del Tempio del Sole e termina con il protagonista (un predestinato che neanche The Passion aveva visto), che riesce a tornare indietro, salvando (appena in tempo) la propria famiglia precedentemente nascosta e sottratta al massacro iniziale. Da far notare che tra Almost e il protagonista di The Passion, seppur entrambe figure predestinate, sussiste una fondamentale differenza: la sorte di chi gli è caro. Infatti, a parte la moglie e i figli (che Almost quasi condanna a morte, facendo scoprire e notare il proprio sguardo rivolto in direzione della buca dove li aveva tanto affannosamente nastosti), tutti gli muoiono intorno: prima il padre (tradito proprio dal suo chiamarlo papà: infatti non potendo uccidere lui, essendo diventato il preferito del capo, un guerriero gli uccide il padre appena lo sente appellare in quel modo), poi l’amico (quello che frana dal percorso in una scena ripresa da L’Ultimo dei Mohicani di Mann) e infine il fratello (che consuma l’ultimo barlume di vita per rallentare l’aguzzino di Almost e dare a quest’ultimo il tempo di “procurarsi” un’arma e scappare). Dopo un’inizio minimamente godibile (soffermatosi sulla raffigurazione della tribu dei cacciatori), irrompono le scene di distruzione e sterminio giusto un po’ prevedibili e privi di alcuna innovazione dal punto di vista registico stilistico, come reso con evidenza dalla sequenza dell villaggio conquistato, depredato e bruciato (fissata in una inquadratura “molto” simbolica: il capo villaggio – padre di Almost – sgozzato, sullo fondo i conquistatori che abbandonano la scena distrutta e i bambini – che non servono – sopravvissuti e risparmiati dai conquistatori).
Altrettanto simbolica sarà la scena del guado del fiume, che segnerà la fine del tragitto nella foresta, territorio dei cacciatori e, successivamente, il ritorno a casa (dove Almost potrà ricordarsi le parole del padre sulla paura e divenire forte, al punto tale da uccidere uno per uno i suoi nemici). A questo punto, quando è ormai emersa dirompente nel regista la velleità do*****entaristica (con scene lunghe, silenziose,  interminabili ma continuamente in primo piano quindi poco docu e molto fiction-drama!) avviene l’incontro profetico con la bambinia malata (colei che se ascoltata avrebbe potuto evitare che la civiltà Maya venisse annientata: sembra di risentire la storia dell’Oracolo di Matrix e della città di Zion) e l’ingresso nella civiltà cittadina con un’enorme costruzione in pietra “bagnata dal sangue”.
Si tratta del tempio del Sole, il luogo dove i Maya sembra praticassero sacrifici umani (Indiani cattivi!) al fine di soddisfare la sete di sangue della terra e di rendere nuovamente fertili le terre e abbondanti i raccolti. Ovviamente il senso ultimo  dei prigionieri risiedeva nell’essere sacrificati durante questo rito della fertilità. La civile e “avanzata” civiltà Maya sembra dunque caratterizzata dal più radicale fanatismo religioso, che si esprime anche nel discorso populistico e da Fuhrer del sacerdote  sul tempio. Torna un parallelismo con The Passion, ovvero il giorno che diventa notte al momento dell’esecuzione di un prescelto condannato a morte che, da prescelto appunto,  conosce il proprio destino (“non posso morire adesso“): dopo aver assistito alla decapitazione di due compagni, Almost, infatti, riesce a salvarsi proprio perché l’eclissi, giunta quando era ormai il suo turno, viene scambiata per un segno di un Dio ormai sazio di sangue. I sacerdoti del tempio, di fronte a cotanto esplicito segnale divino, decidono di destinare i restanti prigionieri ad altra sorte/morte e, in una sorta di truculenta caccia alla volpe, essi vengono uccisi  pugnalati alle spalle, dopo aver ricevuto assicurazione di libertà imminente da parte dei propri carcerieri.
Quando giunge il momento di Almost accade ancora una volta qualcosa di propizio e santissimo. In questo caso, il nostro protagonista (tra l’altro anche simpatico perché dotato di faccetta vispa e furbetta) potrà salvarsi grazie all’intervento del fratello (esangue al suolo),  e dopo una lunga fuga (durante la quale si avvererà la parte restante della profezia della bambina: “Sta attento alla nerezza del giorno; sta attento all’uomo che porta il giaguaro; guardalo rinascere dal fango e dalla terra, a causa di costui cancellerai il cielo e distruggerai la terra. Vi eliminerà e metterà fine al vostro mondo. Ora è con noi“) potrà  riattraversare il fiume, tornare nella sua foresta, uccidere i suoi inseguitori, salvare la propria famiglia e ricominciare dall’inizio una nuova vita. In definitiva si tratta di un film soporifero, e non solo per via del contrasto tra l’eccessiva durata e l’assenza di avvenimenti. Le inquadrature sembrano interminabilmente indugiare sugli sguardi degli attori, illuminati da una -quantomeno-  bella luce naturale che riflette le atmosfere indigene anche grazie alla realizzazione in digitale del film su 4 telecamere contemporaneamente. I dialoghi sono evanescenti, l’ azione è al minimo e il contenuto scarno. Il finale, con la fuga dalla città e il ritorno al di qua del fiume, non restituisce affatto consistenza a un film che alla fine non ha raccontato nulla e che se pretendeva di salvarsi da un punto di vista storico non è riuscito minimamente nel suo intento: come si può pensare di inserire oracoli, combattimenti in style Western-Matrix (il penultimo), l’uso di un dialetto ancora molto utlizzato (yucateco moderno, ormai Mel s’era giocato la carta della lingua nativa con “La Passione di  d Cristo”) per realizzare un film storico?
Per non parlare del tuffo epico nella cascata, ripreso pari pari da L’Ultimo dei Mohicani
(solo che qui la cascata è più alta.. Si sa che Mel fa le cose in grande!)
Che dire poi dell’interpretazione degli attori (che ricordiamo non sono professionisti, ma indigeni)?
Purtroppo la loro monoespressività e la regia del nostro Mel (tutta centrata sulle riprese ravvicinate, utilizzate anche nelle scene repentine, che, invece di coinvolgere finiscono per annoiare) contribuiscono a rendere il  tutto molto poco attraente, monotono e prevedibile. Anche la visione manichea del film  risulta ingenua e decisamente troppo netta, quasi favolistica: il buon cacciator dalla faccina simpatica  che vive in armonia con la natura, prega gli spiriti, si dedica alla famiglia, e sfoggia denti bianchissimi mentre i cattivi conquistatori, custodi dei tempi, sono brutti e assaliti da carie disgustose. La frase iniziale è poi assolutamente incredibile: “Una grande civiltà viene conquistata dall’esterno solo quando si è distrutta dall’interno“.: una chiave di lettura unica fornita in anticipo allo spettatore: sarebbe come dire che se la civiltà Maya è stata sottoposta a genocidio da parte di Spagnoli (e occidentali) e se non ci son più tanti Maya che camminano su questa terra, allora la colpa materiale e storica va ricercata nel degrado morale. Il film, corredato da questo incipit, sembra proprio suggerire questa tesi: i Maya si erano condannati da soli, anzi probabilmente erano ormai prede stanche, stupide, fanatiche e superstiziose in attesa di essere conquistate e fagocitate (l’Occidente è scevro da ogni responsabilità). Il finale del bambino che nasce sott’acqua rende bene il senso del film, quello di uno show visivo mal riuscito.
Anche questa volta, purtroppo, sembra che sia prevalso l’aspetto mediatico e strategico del film rispetto alla sua effettiva qualità: non che ci aspettassimo un nuovo Braveheart, sia chiaro, ma siamo sicuri sia lo stesso regista?
(Ricordiamo che, in quell’occasione, dovendo Mel anche recitare -e tanto- si scelse un aiuto regista di prim’ordine: Peter Weir – L’Attimo Fuggente). A questo punto è lecito dubitare.

Nota: di Daniele Rizzo e Roberta Monno
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