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Manderlay

Recensione: Manderlay

Anno 1933, Grace è in fuga da Dogville insieme al padre e allo stuolo di killer a loro servizio. Durante il tragitto la combriccola si imbatte in una scena poco edificante agli occhi della moralizzatrice Grace: un nero legato e frustato all’interno di una piantagione.

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E’ evidente che la libertà per gli schiavi non è arrivata a Manderlay (il titolo del film, come in Dogville, è il nome della località in cui si svolge la vicenda) e Grace, la solita Grace, sente l’esigenza di fermare la sua corsa per “rimettere a posto le cose” in un  luogo dimenticato da Dio.
A seguito della morte della padrona della piantagione, Grace scoprirà che la vita della piccola comunità di schiavi è regolata da ferree e, a suo parere, sordide leggi redatte dalla megera, che addirittura classificava i suoi uomini in base a numeri, in una sequenza da uno a sette, corrispondenti ad un tratto di personalità. Grace distruggerà le “Legge”, al fine di riportare la libertà a Manderlay, dove si insedierà in pianta stabile insieme a parte dei gangster in suo possesso (buffo no?
), i quali avranno il compito di sorvegliare con le armi che il cammino verso l’indipendenza e l’ autonomia prosegua senza intoppi (ogni riferimento a fatti contemporanei è puramente voluto!)
Purtroppo però, la libertà imposta dalla bianca americana sembrerà essere un regalo non gradito in quanto non richiesto, e presto arriveranno le punizioni per chi stenterà ad abbandonare i vecchi costumi e le vecchie usanze da “schiavo”, intralciando i sogni di gloria e di emancipazione della ormai rossa Grace. Il film termina con la protagonista che fugge in tutta fretta, inseguita da un nugolo di ex schiavi/ ex liberi/ aspiranti schiavi, che le danno la caccia incappucciati nella migliore tradizione ku klux klan (con tanto di torce), e che la reclamano come loro schiavista e padrona…in fondo quello erano e quello volevano essere, schiavi!
Più o meno come in Dogville?

Meno.
Anzitutto devo spendere due parole a proposito della figlia di Richie Cunningham, che sarà pure una giovane promessa di Hollywood e non lo vogliamo negare, ma pretendere che la poverina potesse rimpiazzare quella che fu una potentissima (forse la migliore) Nicole Kidman era davvero impensabile, impietoso e ingiusto. Bryce Dallas Howard è brava, perennemente umida e unta, stupita e frastornata, ma brava.
Raggiungere o non far rimpiangere Nicole però, era un’utopia che a mio parere potrebbe far perdere molti punti a tutto il progetto in quanto ne spezza il ritmo. Lo spettatore si ferma troppe volte a riflettere su qualcuno che non c’è: Nicole, appunto! Se la ricorda, la rievoca nel suo cappottino grigio col bordo di pelliccia o sotto la bandana che le incorniciava i biondi capelli e lo sguardo promiscuo, shokkandosi poi, ogni qual volta riappare Bryce e si scopre che Grace non c’è più. Sentirla dunque chiamare con quel nome appare una caricatura insopportabile.
Ecco che parte del film la si perde perché smarriti in queste considerazioni sotterranee: il baratro che divide le due interpreti è un solco davvero troppo profondo, e meraviglia che il navigato Lars non abbia cercato un’attrice più solida, più sfaccettata e più costruita con cui imbastire il secondo capitolo della sua saga, a meno che…. A meno che non volesse ottenere proprio questo! E’ evidente, in questo film, quanto sia profondo il disgusto che Lars nutre verso Grace, verso la sua stolida prepotenza, il suo grottesco coraggio, la sua goffa volontà evangelica e moralizzante, tutte attività molto più palesi in Manderlay che in Dogville. In Manderlay Grace non è una misteriosa fuggiasca apparentemente buona e generosa, non potrebbe esserlo perché noi conosciamo già Grace e la sua arroganza celata sotto un fare compassionevole. In Manderlay Grace non è più protagonista di una vicenda, bensì strumento della narrazione.
Insomma Grace non è più un personaggio da indagare quanto in Dogville, e dopo che i suoi angoli oscuri sono stati illuminati non resta che assurgere Grace a prototipo di se stessa, a emblema caricaturale, quasi una macchietta. I tratti di quella che fu una spigolosa personalità complessa diventano grossolani, marcati comportamenti perennemente sgraziati e controproducenti: tutto quello che Grace può sbagliare lo sbaglierà; tutte le iniziative prese a fin di bene si riveleranno un disastro per lei e per la comunità, il suo candore si rivelerà in tutta la sua rozzezza e zotichezza. Anche sentimentalmente Grace appare regredita, e la platonica e intellettuale passione che la legava al “filosofo” Tom, tutta parole e sospiri, lascerà spazio alla truce voglia dell’uomo nero fulgido e dotato. Il suo pensiero, un tempo florido e sagace subisce ora l’inesorabile condanna del buon Lars: Grace è stupida!
Non mi dilungherò sulla neanche tanto celata analogia fra Grace e il Presidente degli Stati Uniti, preferirei approfondire l’altrettanto evidente analogia fra Grace e l’America stessa.
Quell’atteggiamento tale per cui un americano è in buona fede e sinceramente convinto che si possa esportare la Democrazia a chi non te l’ha chiesta aspettandosi un grazie!
Quell’atteggiamento tale per cui un americano è sinceramente convinto che l’indiano (indigeno) senta il bisogno di una scuola, di un barbiere e di una fabbrica di scarpe, e che così, nudo a cavallo nel deserto non stia bene.
Questa è l’America zoticona e arrogante che Grace incarna e contro cui Lars si scaglia, e a malincuore per Bryce, una Nicole avrebbe dato troppo spessore ad un personaggio che non lo richiedeva più.
Manderlay è più semplice, più didascalico e meno sorprendente di Dogville.
Non ha il suo stesso impatto e la forza dell’inventiva sembra essersi dispersa nell’autocitazione. Non sorprendetevi se ad ogni fine capitolo sarete in grado di intuire chiaramente quanto avverrà nel successivo, Manderlay è prevedibile quanto una canzone country.
Ma non perdete fiducia nel genio di Lars, andate oltre quello che normalmente pretendereste da un film come, per esempio, una convincente protagonista.
Lars insulta Grace attraverso la stessa attrice che la interpreta.
 Provate a rivedere Manderlay e cambiate prospettiva. Non chiedetevi che cosa pensa questo europeo grassoccio e nevrotico della magica Land of Opportunity; domandatevi piuttosto, con quali mezzi ve lo sta comunicando?

Cosa vuole che proviate?
Che sensazioni vuole lasciarvi?

Quando, alla fine del film, vi direte “Ma tutto questo è ovvio, è chiaro, è evidente, non mi ha detto nulla di nuovo!”, sarete certi di non aver tralasciato l’ironia di tutto ciò?
E Lars Von Trier, ragazzi, è un regista molto, molto ironico…
Manderlay: Copia sbiadita e ripetuta di Dogville; per chi ha fede in Lars e non demorde.

Nota: di Roberta Monno
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