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Dogville

Recensione: Dogville

Cosa accade nel piccolo simbolico centro, Dogville appunto, all’arrivo della bellissima e per questo ingestibile Grace?
Come può accogliere un luogo tetro, solingo e chiuso, abitato da esseri umani bassi e infimi, turpi e ripugnanti, una divina creatura, solare come nessuno e generosa come una madonna?
Ma benissimo, che domande?
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I cittadini di Dogville si sentono lusingati dal fatto che cotanta grazia, (appunto!), abbia avuto il destino di finire proprio tra le loro montagne arse dal sole e dal livore, leggendo quasi nell’arrivo della giovine una sorta di conferma del loro buon agire. Certo, all’inizio sono tutti un po’ sospettosi, ma non tanto quanto ci si aspetterebbe da una comunità di quattro anime che non vede un volto novello da chissà quanti lustri.
Grace, diciamocelo fuor di metafora, inizia a far gola a tutti. Ma proprio a tutti. Vecchi, bambini, donne, invalide, madri, tutti sentono di poter ricevere qualcosa da lei, e col tempo (neanche tanto), tutti avvertono che Grace può distribuire gesta e servigi incredibilmente indispensabili alla collettività, che da austera e inespugnabilmente  autonoma, si trasforma in carnefice instancabile, per il solo fatto di avere un pollo da spennare. Nessuno aveva mai manifestato tale attitudine e inclinazione allo schiavismo, a Dogville, eppure dall’arrivo di Grace, dimessa e col senso di colpa sempre pronto a risalire, (con la sua sola presenza mette a rischio l’incolumità della città), sembra che nessuno, ma davvero nessuno, riesca a sottrarsi al raptus di sadismo che infetta l’aria, fino a quel momento salubre. Ma allora scusate, c’è qualcosa che non va in Grace!
E’ lei a “tirarsela”. Verrebbe da dire: “Chi pecora si fa il lupo se la mangia!” Beh, è un po’ più complicato di così, ma solo un po’.
Non mi dilungherò sul genio di Lars Von Trier, non mi soffermerò commentando le sfaccettate personalità dei protagonisti (anche se faccio un grande sforzo, ma solo analizzare il personaggio del filosofo Tom mi richiederebbe un editoriale!), non mi esprimerò circa la scelta di ambientare il più truce di tutti i luoghi in un non luogo (evidenti i riverberi del movimento Dogma), ma cercherò di centrare il cuore della teoria di Dogville, che poi è quanto serve a Pim per riprendersi dai suoi dolori. Esistono due punti di vista sulla faccenda che, come ci dice lo stesso Lars, attivano dei “cambi di luce su Dogville”, a seconda che se ne accenda uno o l’altro. Possiamo guardare le esigenze di Grace o le necessità degli abitanti di Dogville, in entrambi i casi non troveremo né un colpevole né un vero innocente.
Grace non è uno stinco di santo, un po’ per genetica (il padre è un killer), un po’ tanto per via della malattia che la affligge dalla nascita: l’arroganza. Inoculatasi il virus da sé per tentare di prender le distanze dalla crudeltà del padre, Grace sviluppa una sorta di autovenerazione dovuta alla sua capacità di saper comprendere gli altri e compatirli, anche nei loro gesti più atroci. Grace non condanna, mai!
Grace è compassionevole come una divinità, e non ritiene sia (mai) il caso di  metter  chicchessia dinanzi alle proprie responsabilità.
Grace non è curiosa di sapere perché qualcuno agisce secondo un certo costume, anche quando questo vuol dire violentarla ripetutamente, incatenarla, picchiarla e quant’altro, perché Grace sa già cosa c’è dietro quel costume, anche se feroce e criminale, e perdona vite difficili, persone confuse, cittadini sadici ma irrimediabilmente spaventati.
Grace è così arrogante da permettere che la si stupri e la si umili senza un accenno di ribellione, perché per Grace, istruita, intelligente e intuitiva,  non sarebbe una lotta fra pari. Lei ha già compreso, perdonato, assolto, condonato, in un soliloquio di bontà e saggezza dove nessun’altro, oltre lei, merita di essere interpellato, chiamato in causa, ascoltato. Ditemi, ci chiede il padre di Grace, conoscete arroganza più sconcertante, donna più saccente, femmina più supponente?
Forse Grace era in buona fede, ma alla fine deve essersi stancata del ruolo anche perché, nessuno a Dogville ha capito che se tutte quelle oscenità erano potute avvenire, lo aveva permesso lei, lo aveva consentito lei, accidenti! Non si prendano meriti che non hanno! Ma Tom esagera, mostra di non aver capito, continua a insultare la sua intelligenza…e questo no, questo davvero all’arroganza non gliela puoi fare. Esperimento fallito dunque, Santa Maria Goretti non ha funzionato, meglio assecondare il gene e farli bruciare, ardere come streghe…”Il mondo” sentenzia Grace, “Sarà un posto migliore senza Dogville”. Mmmh…andiamo bene…. Ma perché gli abitanti di Dogville si sono comportati così?

Beh, non ci sarà bisogno di scomodare contorte teorie come nel caso della prospettiva di Grace; i “dogvillians” sono, infatti, ben lontani dalla struttura della pulzella in cui (loro, sì!) malcapitatamente incappano. Sono semplici, dunque, e per questo estendibili più che mai, così estendibili da rappresentare la più antica, che dico antica, atavica espressione del comportamento umano: l’esigenza di immolare qualcuno sull’altare della colpa, punirlo per purificarsi, lavarsi col sangue del sacrificato che sciacquerà via le colpe immonde che ci portiamo dietro. E non si sacrifica chi si odia, chi si detesta o si disprezza, no! Perché il sacrificio abbia valore deve avere per protagonista chi amiamo (Abramo e Isacco docet!), chi abbiamo, sostanzialmente, precedentemente esaltato, inneggiato, venerato persino. Non si può, di fatto, scaraventare nel fango chi si trova sospeso a mezz’aria, anzitutto perché farebbe poco rumore (fisico e figurato) rispetto a chi si trova molto in alto, ma soprattutto non assolverebbe la funzione catartica di agnello sacrificale, che si sa, deve essere il più bello, il più pasciuto e il più goloso di tutti.
Mica si è mai sentito che  sull’altare ci va l’agnello/fetecchia del branco.
Beh, i  “dogvillians” non hanno fatto niente di più di quello che fa l’uomo da sempre: trova un colpevole (agnello o capro che sia) e lo immola in nome dei suoi peccati. Questa entità svolge il prezioso compito di catalizzare su di sé l’odio e il disprezzo, e così facendo lo contiene. Così facendo impedisce che i membri della collettività si scannino fra loro, e fa sì che le energie distruttive si riversino e si concentrino tutte su di lui. In effetti il “capro” svolge un’importante funzione sociale di contenimento, appunto, ed è fisiologicamente necessario alla sopravvivenza della comunità, che senza lui imploderebbe. I Cittadini di Dogville, però, hanno scelto il capro sbagliato; qualcosa, del meccanismo perfetto e millenario, si è inceppato.Dogville: Sempre geniale Von Trier; per eletti coraggiosi

Nota: di Roberta Monno
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