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Fast Food Nation

Recensione: Fast Food Nation

Sullo sfondo di un inquietante interrogativo si intrecciano racconti di miseria umana. Operai immigrati brutalmente sfruttati, cittadine dell’entroterra che vivono e si sviluppano attorno a fast food e ristorantini squallidi, grandi aziende ciniche e coerenti nello sposare una politica del guadagno famelica e tenace.  Don Henderson, responsabile marketing di una catena di fast food, viene mandato a indagare sull’iter di produzione del Big One, panino “di punta” dell’azienda, che pare essere contaminato da “licoidi fecali”… Ovvero… Come ci finiscono le feci negli hamburger?

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A quando una denuncia ai film di denuncia?
È questa la domanda che mi frulla nella testa durante la visione di questo trito (scusate l’involontaria battuta allusiva) e ritrito filmuccio ululante ingiustizie made in Usa, che van sempre a braccetto con pericoli per la salute, sfruttamento della povertà (in questo caso dell’immigrazione), ricchezza sfrontata che si erge su fondamenta di miseria umane e scarse attenzioni per i pur adulati consumatori. Attenzione, non che le suddette questioni non meritino di essere approfondite, lo meritano, ed è proprio da qui che parte la mia disapprovazione per quest’operetta furba e ruffiana: non approfondisce un bel niente ma si limita a frullare stereotipi, inscenare situazione già viste, sfrutta un ormai alquanto consolidato background di suggestioni in materia, attingendo a piene mani dallo stesso inconscio visivo dello spettatore. Si può dire che questo film viva di rendita dei precedenti (e ben fatti) Super Size Me, The Corporation, persino i vari Fahrenheit e Bowling a Columbine finiscono tirati in ballo nel calderone della memoria dello spettatore che rigusta emozioni (e irritazioni) preesistenti senza di fatto assistere a nulla di nuovo. Tratto dal libro inchiesta di Eric Schlosser, Fast Food Nation non racconta nulla, non si scomda a portare avanti nessuna tesi spericolata (Dio mio, grazie Linklater per averci detto che negli hamburger c’è la merda…!), non mette in scena nessun dialogo veramente interessante e i personaggi sono tratteggiati in maniera netta e grossolana. Abbiamo un puro Greg Kinnear negli improbabili panni dell’assonnato e incredulo responsabile delle vendite che per la prima volta si scontra con le brutture del capitalismo feroce (mah… Come sei diventato dirigente marketing di una catena di fast food, mi chiedo…), un cinico (ma almeno simpatico) Bruce Willis nel convinto ruolo del sostenitore di questo mondo come il migliore possibile, si gratta la pancia e rutta sotto la bandiera del”questi immigrati guadagnano in un giorno quello che nel loro paese guadagnerebbero in un mese”…. E vi dirò… Nella cornice di quello che per me è uno sgangherato film le parole di Jack-Willis suonano come le più coerenti e ben organizzate, soprattutto se messe a raffronto con quelle che dovrebbero costituire l’altra faccia della luna: i discorsi alticci e scadenti messi in bocca ad uno sciupato Ethan Hawk, comunistoide contestatore della patria e dei suoi costumi. Parole e discorsi che confluiranno nella giovane nipote dotata di buone speranze intellettuali, che metterà su una scricchiolante combriccola di “disobbedienti” (tra cui rinveniamo la bistratissima e poco credibile Avril Lavigne) che in segno di protesta contro questo sistema che non va, cercano invano(!!) di ragionare con le mucche rinchiuse nei recinti del mattatoio di Cody: amara è la scoperta: abbattuti i confini le vacche non scappano! Avril strepita e guarda pensierosa i bovini interrogandoli sinceramente indignata: ”Perché non fuggite?
Non volete essere liberi?
” Ah, questi democratici! Sconnessi e disorganizzati sognatori! Il film incede fra sottotracce e microstorie (forse un po troppa carne al fuoco.. Ah ah.. L’ho fatto di nuovo!) che non troveranno soluzione in vista del finale, vedi l’ipotesi di rapina dei due ragazzetti che lavorano da Mickey’s, la vita (a quanto pare ben riuscita) di Coco (Ana Claudia Talancòn), sorella cinematografica di una Catalina Sandino Moreno (Maria Full Of Grace) degna di nota. Intensa e perfettamente in parte rappresenta il lato miserabile della storia, carne umana trafficata con non più riguardo di quella animale. Il film vive il suo momento più crudo (ai limiti dello splatter) nella sequenza finale: la macellazione di una mucca ripresa per intero, dallo stordimento allo sventramento: la ripugnante conclusione è a mio parere del tutto gratuita e fuori luogo: quell’orrore infatti spetta a qualsiasi bovino destinato alle “tavole” sia che esso diventi un Big One, un Big Mac o la più meravigliosa e rispettabile tagliata al pepe verde! Perché dunque, mi chiedo, pendere a pugni nello stomaco lo spettatore con immagini violente e invasive che nulla hanno di funzionale allo scopo del racconto?
O è forse un film che ha per obiettivo promuovere uno stile alimentare vegetale in toto?
Non credo, giacché il buon Linklater ha dichiarato, durante una conferenza stampa a Cannes di voler realizzare un “film coraggioso”… Ebbene, qualcuno doveva dirgli che non basta filmare da vicino il pur truce sgozzamento di una vacca (spettacolo godibile da casa in poltrona sintonizzati su National Geographic) a rendere coraggiosa un’opera che risente il fiato corto di una sceneggiatura poco maneggiata e lasciata a crescere su stessa e sulle sue proliferanti ovvietà. Tanti cliché dunque (non ultimo la parata di star che lavora al minimo sindacale pur di assicurarsi un posto nella vetrina dei buoni), tante banali accozzaglie in un opera che non aggiunge nulla alla coscienza di chi va a vedere certe glorificanti “denunce”, un lavoro che si rivela carente nella drammatizzazione e poverissimo dal lato do*****entaristico.Fast Food Nation: Incompleto e incompiuto… Per palati ingenui.LA FRASE: “Un po di merda bisogna sempre mangiarla” Bruce Willis, Fast Food Nation, 2006.

Nota: di Roberta Monno
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