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Fuoco Cammina Con Me!

Recensione: Fuoco Cammina Con Me!

Rotto lo schermo TV e penetrati nel più angusto buio della sala cinematografica, niente è più come prima, nonostante l’impressione di mutevole déjà vu: a Spokane (nuova versione di Twin Peaks), si fa tutto più sordido e squallido, le autorità locali si prendono gioco dell’FBI, c’è un bar ma sembra un bordello e la barista è una versione invecchiata e involgarita della Norma del RR; non ci sono villette ma un campo per roulotte, il caffè è imbevibile e la foto di Teresa Banks non è rassicurante come quella dell’amica Laura: Teresa ha i capelli biondi ossigenati e tagliati a maschietto, ha le labbra rosso acceso, fuma e il suo sguardo è triste.

SCHEDA TECNICA

SCHEDA DVDL’operazione di re-make-up mostra le screpolature e lo sfaldarsi degli strati. Anche a Twin Peaks, quando ritroviamo il sorriso di Laura, le cose sono mutate o più che altro manca qualcuno o qualcosa (luoghi e personaggi), cancellati nel nero che spesso sembra affiorare dalle immagini (nella fotografia di Ron Garcia, prevalentemente buia, in ombra soprattutto negli interni. A casa di Laura che nella serie era sempre piena di luce, ora c’è sempre del nero). E non può che essere così, ora che sappiamo, non abbiamo più lo sguardi ingenuo che ci ha offerto “Twin Peaks” in TV, non siamo degli sconosciuti, degli estranei che vedono solo la superficie, la quale tende anzi a sgretolare. Le immagini sono sempre le stesse, ma noi ora sappiamo molto di più.
La stessa Laura, nel piano sequenza che ce la ripresenta sorridente camminare verso di noi, mentre la macchina da presa indietreggia, non ha più il volto di una ragazza, è una donna dagli occhi scavati e ha delle pieghe attorno alla bocca. È una donna che scopriremo sempre più separata da se stessa. Laura Palmer è a sua volta una morta che torna in vita (M. Marangi), come sperdutasi in un buco nero, incapace di sentire integro il suo stesso corpo (Abbasso gli occhi, e vedo le mie scarpe così lontane da me dice il testo di una canzone scritto appositamente da Lynch), forse per il troppo che deve sostenere.Il ruolo di Sheryl Lee è un dunque enorme, visto che deve essere di volta in volta, tutte-le-donne-in-una (M. Chion), costretta ad indossare tutte le vesti femminili possibili, soffocata ed irrigidita senza possibilità di fuga, costretta ad una recitazione eccessiva, nel tentativo di forare la pesante maschera, fatta di strilla, risate isteriche, ghigni diabolici, sguardi allucinati, smorfie infantili, nel tentativo di rompere la corazza che la imprigiona, “─ se scappo posso cadere e rompermi. /─chiese la bambina. /─ Oh, sì; ma dopo aggiustati non si è più tanto carini, sai ─ rispose la principessa ( “Il meraviglioso mago di Oz”, F. Lyman Baum).“Fuoco cammina con me!” non risolve nessun mistero e vuole solo accompagnarci fino la giorno della morte di Laura, quando suo padre, dopo averla violentata per anni, scopertala prostituirsi, la uccide. Incesto e desiderio di morte affiorano da questo specchio nero che è “Fuoco cammina con me!”, stavolta però vedremo Laura e Leland a letto assieme e Bob non fa meno paura di Leland ormai, non è più lì per spaventarci e confonderci ma per confermare. Bob è davvero tutto, il male assoluto ma anche il bene che ci spinge a vedere, a credere di voler vedere ancora, anche dopo che tutto è stato svelato. Del mistero non resta che la sua inviolabilità, la donna rossa con la rosa blu, e il detective Chester Desmond, nel momento cruciale dell’indagine scopre che la verità è enigma, mistero insondabile, segreto, come la rosa azzurra sul vestito rosso (L. Mango), svanirà e non ne sapremo più nulla, nemmeno verrà più nominato. Il film è contaminazione, è corpo ammalato, frutto dell’unione incestuosa tra cinema e TV nello sfrigolio dei pixel impazziti che fin dalla prima inquadratura corrodono l’immagine e affiorano come i tumori sul corpo dell’uomo elefante. Ogni apparizione è anticipazione di questo scrostarsi e non è più questione di passaggi da un luogo all’altro, da un piano ad un altro (realtà/sogno) tramite stacchi o dissolvenze (rare in “Twin Peaks”): il luogo è unico, e il rischio è di prendere fuoco e ardere in eterno, e gli angeli non mi potrebbero aiutare, perduti anche loro in un grande vortice, confida Laura alla sostituta di Donna. Si diceva dell’ascensore in “Velluto blu”, che si sarebbe scisso tra porta e treno. La porta qui, non è un varco ma è costantemente una porta duchampiana, insieme chiusa e aperta, come quella che la signora Trimon e il bimbo mago mascherato donano a Laura. Entrare è già uscire e viceversa, ogni movimento è la sua negazione, ogni senso la sua cancellazione. Nella foto della porta appesa in camera da letto, Laura vede se stessa, ma si vede anche vedere dalla foto, in un moltiplicare all’infinito di sguardi e coincidere degli stessi in un unico punto (oscuro) a noi comunque invisibile (“Was it me, was it you, questions in a world of blue canta questa volta Julie Cruise). Altra figura fondamentale il treno, il luogo in cui Laura muore, un vagone deragliato e abbandonato dal/nel tempo, visione d’immobilità nello spazio/set, ma visione mobile nello spazio cinematografico da “Twin Peaks” a “Fuoco cammina con me!” fino a “Hotel Room”, le cui pareti delle stanze ospitano riproduzioni fotografiche di treni in corsa. Il treno trapassa la visione attraversandola, bucandola, affiorando tra le urla di Ronette e quelle di Laura, in lampi di buio e luce.
È il treno fantasma dei Lumière a contenere il cadavere, proveniente dal passato senza futuro del cinema, arrugginito, consumato dall’immagine televisiva. Nel buio della sala ritorna a spaventare le sue vittime, a fischiare e sbuffare rabbia e dolore, rinchiuso tra due tempi destinati a collidere e ad arrotolarsi, e chiudersi in un abbraccio mortale e insieme d’amore, a mostrare l’assenza di senso che è l’amore: fissarsi ma all’infinito, trasportati verso l’eterno.
Fuoco cammina con me!” è questo che sposa: il cinema è falso, fatuità, è fragilità dell’immagine, ma nello stesso tempo ha questa pesantezza, ha l’obbligo di mostrare e far vedere corpi, cose vere, elementi definibili realtà.Ascensore dunque = porta + treno = redroom. “Twin Peaks” è lì che si conclude, con Cooper sfaldato in più immagini di sé, ed è così che lo ritroviamo in “Fuoco cammina con me!”, in preda al panico per un incubo fatto la notte prima, e ciò che vediamo è il ripetersi degli interminabili sdoppiamenti dell’ultimo episodio del serial. Lui che entra ed esce dall’ufficio di Gordon Cole, che si guarda sparire nel monitor e poi si guarda guardarsi, sagome nel monitor, è già l’incubo, è già redroom, ma con scenografie diverse. E poi l’irrompere in ufficio di David Bowie (ex uomo elefante a teatro), l’agente Philip Jeffries, anche lui è entrato nella redroom per salvare una donna e ne è tornato folle. Alle immagini in ufficio si sovrappongono i pixel impazziti del televisore e le immagini di una bettola con alcuni personaggi strani, tra cui il nano e un bambino in rosso con una maschera nera (che non è il nipote della signora Trimon), che balza di qua e di là e di cui non sapremo mai nulla; magari è il nano dal punto di vista dall’agente Jeffries, o da chissà chi altro è penetrato nella redroom. Poi nessuno ricorda più niente, si perde il sogno di Cooper, non ci si ricorda che Bowie è stato in ufficio, eppure lo schermo ha trattenuto delle immagini, la sagoma di Cooper e la corsa di Jeffries si sono spellate via e appiccicate al monitor, fino a che qualcuno non le cancellerà, eppure, per un attimo un’immagine proveniente da spazi e tempi sconosciuti è stata catturata. Il cinema, mummia del tempo e sua conservazione, rende visibili i frame elettronici nascosti, la malattia ormai incurabile inoculata dalla televisione, memoria instabile e auto-cancellazione del tempo. “Fuoco cammina con me!” mostra l’immobilità e il fuori campo assoluti, mostra affiorare l’invisibile.
Come dice E. Ghezzi la redroom è perciò lo spettacolo e la sua ‘introduzione’, la camera e la telecamera, il luogo e il fuori campo. […] Istanza di rovesciamento continuo nel rapporto tra interno e esterno, privato e pubblico, tempo e spazio”, incertezza della visione: “Neanche c’è bisogno di pareti, per quella ‘camera’. La parete, lo sappiamo perfino dal teatro, può essere trasparente vuota virtuale. Prima che qualsiasi sipario si apra dunque, l’Attesa, primadopo, senza che il meccanismo si attivi

Nota: di Tomas Tezzon
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